Leggere sulla metro
Al mattino, per andare in ufficio, prendo la metro. La scena più o meno è questa: persone in vario grado incattivite dal sonno, dal freddo, dalla frustrazione, in taluni casi dalla disperazione, affollano una banchina battuta dal vento. In una mano ho il computer portatile e nell'altra la borsa con le carte che mi servono per lavorare. Ne consegue che il giornale, che ho appena acquistato e che gradirei riuscire a leggere, rimane "pinzato" tra l'indice e il pollice di una delle mie due mani occupate. Arriva la metropolitana e saliamo, perfettamente consci che i posti a sedere sono tutti, senza eccezione, già occupati. A questo punto, invariabilmente, mi colpisce la visione di n-replicanti tutti identici che, comodamente seduti (bastardi maledetti), leggono giornali, tutti identici. Poi, immancabilmente, impreco. Quindi, necessariamente, depreco. Stimolato dall'invidia pura, assoluta che provo per chi ha un posto a sedere, penso: "Vedi il ricatto della gratuità? Vedi che masnada di caproni, carne da macello degli uomini (in nero) del marketing? Tutti uguali, a leggere le pagine tutte uguali di giornali tutti uguali". E, pavlovianamente, stringo più forte tra l'indice ed il pollice la mia fiera autodeterminazione da 0.90€.
Non appena riassorbo questa spruzzata di livore paraconsolatorio, penso che, per raggiungere la metro, esco di casa sempre alla stessa ora; sono costretto invariabilmente ad un passo da bradipo (38 minuti per 4 km, pari a 6,315 km/h di media) da un traffico pazzesco, per distrarmi dal quale ascolto alla radio sempre gli stessi programmi (radiodue); prendo ogni giorno la stessa scorciatoia per risparmiare un po' di tempo, regalandomi un pallidissimo sospetto di superiore intelligenza; il giornalaio ormai rimette il suo orologio atomico al cesio quando appaio nella sua edicola e non devo neppure chiedergli il giornale, che mi dà automaticamente con un gesto rapido della mano che vale anche per saluto; arrivo al parcheggio di scambio dove lascio la macchina sempre nella stessa fila, dato che arrivo sempre alla stessa ora. Poi, come ho raccontato, prendo la metro e faccio risuonare il mio barbarico Yawp, indignandomi con gli altri cani alla catena ogni giorno nella stessa maniera.
Non appena riassorbo questa spruzzata di livore paraconsolatorio, penso che, per raggiungere la metro, esco di casa sempre alla stessa ora; sono costretto invariabilmente ad un passo da bradipo (38 minuti per 4 km, pari a 6,315 km/h di media) da un traffico pazzesco, per distrarmi dal quale ascolto alla radio sempre gli stessi programmi (radiodue); prendo ogni giorno la stessa scorciatoia per risparmiare un po' di tempo, regalandomi un pallidissimo sospetto di superiore intelligenza; il giornalaio ormai rimette il suo orologio atomico al cesio quando appaio nella sua edicola e non devo neppure chiedergli il giornale, che mi dà automaticamente con un gesto rapido della mano che vale anche per saluto; arrivo al parcheggio di scambio dove lascio la macchina sempre nella stessa fila, dato che arrivo sempre alla stessa ora. Poi, come ho raccontato, prendo la metro e faccio risuonare il mio barbarico Yawp, indignandomi con gli altri cani alla catena ogni giorno nella stessa maniera.
Mi domando: faceva dunque parte del bottino di guerra degli americani anche un'organizzazione della produzione (e dunque del lavoro e dunque della vita delle persone) che risolvesse (per ko tecnico, direi) in chiave pragmatico-statunitense il tema, dibattuto oziosamente dalla vecchia Europa per quasi duemila anni, del libero arbitrio?
1 Comments:
...io...un libro. Lascio quei bignami dell'informazioni alle facce senza faccia. Il popolo della metropolitana è...bizzarro!
21 dicembre, 2006 16:00
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