"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

martedì, novembre 29, 2005

Ho letto un libro e ho sentito freddo

Ho appena terminato di leggere “Lo Stato dell’Unione”, un libro molto divertente ed intelligente. È il romanzo di un autore friulano, Tullio Avoledo, che ha per protagonista un pubblicitario che viene ingaggiato dall’Assessorato alla Cultura di un’imprecisata Regione del Nord-Est italico. Gli viene chiesto di realizzare una grande campagna di comunicazione tesa alla promozione della conoscenza e del recupero delle tradizioni celtiche della Regione. Naturalmente, non esiste in realtà alcuna tradizione celtica da recuperare e promuovere (e, infatti, viene ingaggiato un pubblicitario e non un antropologo). In altre parole, con un budget che sembra non avere limiti e confini, si affida al protagonista il compito di far credere all’opinione pubblica che la Regione ha indubbie origini celtiche. La storia è narrata con garbo e brio, intrecciandosi gli accadimenti della trama principale con la crisi coniugale del protagonista. Il timbro che caratterizza tutta la narrazione è quello dell’ironia.
Nell’ultima parte, però, in concomitanza con il risolversi di alcuni misteri della storia, il ritmo si fa incalzante, serrato e, quasi precipitando dietro al racconto, si cade ineluttabilmente in un mondo parallelo, tetro, grigio, violento e autoritario, in cui un’oligarchia di potenti inavvicinabili, intoccabili, distanti, plutocrati ed ignoranti strumentalizza una moltitudine fiaccata da anni di circo mediatico vuoto e sedante, un popolo ormai irrimediabilmente convinto della superfluità del pensiero. Si chiude l’ultima pagina e non si può fare a meno di provare un brivido e di ripetere a se stessi - per provare a tranquillizzarsi - che quello di Avoledo è solo un esercizio, maledettamente brillante, di futurologia. Non si può fare a meno di scacciare (per paura) il pensiero che sia così facile condizionare una massa che è felice di sentirsi legittimamente esclusa da ogni tipo di decisione e che, come sa chi di mestiere stimola la domanda latente, non vede l’ora di avere un nuovo bisogno. Alla fine del romanzo, si prova davvero un profondo disagio, che nasce da un’amara, incontrovertibile considerazione: i semi da cui Avoledo fa germinare questo altro “reale possibile” sono tutti qui. Li viviamo quotidianamente, sentiamo quelle parole nei telegiornali, le leggiamo sui quotidiani, le sussumiamo dalla comunicazione visiva.
La maggioranza è un concetto dannatamente importante in democrazia e l’inquietudine (spessa, non sottile – precisazione necessaria, visto che, chissà perché, l'inquietudine è sempre sottile) che il libro trasmette con una forza eccezionale è che la nostra società, la nostra democrazia è inerme, non ha alcun sistema immunitario in grado di difendere la maggioranza dalla mistificazione di pochi. Lo smarrimento nasce dal timore (che sconfina in sconforto) che quello di Avoledo non sia la “descrizione di un altro possibile reale”, ma “un’altra possibile descrizione del reale”.

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