"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

venerdì, settembre 22, 2006

Dio: istruzioni per l'uso

Siamo davvero nel bel mezzo di una guerra di religione? Credo proprio di no (e, del resto, ho già avuto modo di scrivere di quanto io sia morettiano e, dunque, “sempre d’accordo e più a mio agio con una minoranza di persone”). Parto da due premesse che mi sembrano fondamentali: i) Osama Bin Laden, nel corso della sua precedente vita da perfetto occidentale, è stato religioso tanto quanto lo può essere il Gabibbo; ii) Osama Bin Laden ha bisogno di colla per tenere insieme la sua rete.
Il mondo arabo (che, giova ricordarlo, non esaurisce l’Islam e non ne è esaurito) è un puzzle estremamente eterogeneo. Lungi dal definire Osama come un Robin Hood mondiale, gli va riconosciuto di esser riuscito in un’impresa di portata storica, ovvero a far remare Sunniti, Sciiti, Sauditi (ma anche i Ceceni e i Pakistani ed altri ancora) tutti dalla stessa parte. Per ottenere questo risultato, ha fatto leva sul solo tratto comune che può legare fra loro tutte le diverse “tribù”: la religione.
La “lotta” di Osama ha come obiettivo le lobby di potere che costituiscono l’establishment economico finanziario statunitense in quest’epoca teo-con. La guerra dell’Islam non ha come obiettivo primario la cristianità, ma essa è rivolta contro l’Occidente economico-politico e, solo come necessario corollario di ciò, anche l'Occidente religioso.
Dunque, tutto questo detto, non sono affatto convinto che la ragione profonda per cui la povera suor Leonella è stata uccisa in Kenya siano le parole del Papa a Ratisbona o le vignette dell’ormai celeberrimo giornale danese. Quelli sono i desiderati effetti di second’ordine (anche se è tremendo doverli definire lucidamente così) di chi ha inteso strategicamente porre lo scontro sul piano indentitario.
È una guerra che usa la religione, ma non è una guerra di religione. Il peggiore errore che possiamo fare (e parlo di errore tattico da un punto di vista che, se si vuole, è prettamente bellico) è rivendicare con forza le nostre radici cristiane. Non perché non si trovi effettivamente in esse quella visione dell’uomo come individuo, uguale tra uguali, al centro del mondo e della natura, da cui abbiamo saputo costruire diritti, libertà, benessere e democrazia, ma perché il riaffermarle compatta chi attacca l’Occidente molto più che l’Occidente stesso.
C’è un fenomeno di cui poco si discute, ma che si afferma ormai da anni, lentamente ed inesorabilmente. Larghe fette della popolazione di colore negli Stati Uniti, quelli che sono esclusi da un patto sociale troppo selettivo, si stanno convertendo sempre più rapidamente all’Islam. La “strategia di marketing” di Al Qaeda riesce sempre più ad accreditare l’Islam come la forza (politica, prima che religiosa) che meglio sa dare voce agli esclusi, ai secondi, agli sfruttati. Questo è il vero punto cruciale su cui dobbiamo essere capaci di operare, per disinnescare una bomba ad orologeria alla cui esplosione sembriamo quasi rassegnati: dobbiamo riuscire a immaginare e disegnare un modello di convivenza, un nuovo patto sociale, che, in maniera davvero globalizzata, sappia essere accettato dentro e fuori l’Occidente e sappia offrire più solidarietà, più opportunità ed una maggiore ricomprensione a coloro che oggi sono spinti ai margini.