Per non essere sempre in ritardo
Ho deciso di fare il bravo bambino. Allora, per una volta, darò ascolto a uno dei cardini del malmostoso buonsenso con il quale i genitori - tutti i genitori - inquinano la gioiosa spensieratezza dell’infanzia e farò oggi qualcosa che sicuramente ci sarebbe il tempo di fare in un altro momento (che spero arrivi il più in là possibile): ringraziare Enzo Jannacci.
Non ne parlo oggi perché sta per morire (almeno spero di no, anzi gli auguro di continuare a spiegarci come funzionano i nostri cuori e la nostra testa ancora per lunghissimo tempo). Ma non mi piacerebbe accadesse di nuovo quanto è successo con il povero Gaber, a cui abbiamo riconosciuto la capacità di toccare le nostre corde più intime, soltanto dopo aver perso per sempre la possibilità di godere della sua intelligenza e della sua sensibilità. Allora, sin da ora (che è gratis), grazie, Enzo.
Jannacci non saprà mai che oggi ho sentito il bisogno di ringraziarlo per tempo (e se pure lo scoprisse, se ne fregherebbe). Poco male, non è per questo che scrivo. Mi serve a ricordare quale straordinaria forma di generosità e di amore verso il prossimo sappia essere l’arte.
Sono diversi Gaber e Jannacci, addirittura opposti. Tanto lucido e razionale il pensiero del primo, quanto surreale e accidentato quello del secondo. Si potrebbe dire che Gaber sta a Jannacci, come la prosa sta alla poesia. Entrambi, però, si sono cimentati con l’ineffabile, cioè con tutti quegli sfuggevoli frammenti della vita, della cui bellezza essi compongono il segreto indicibile.
Hanno fatto anche coppia per un breve periodo, quello de I due Corsari (memorabile Una fetta di limone), ma non è per questo che li ritengo due facce della stessa medaglia.
Entrambi mi commuovono per la loro tenace convinzione che l’amore (inteso cristianamente – sì, proprio così, cristianamente – come capacità di vedere se stessi in ciò che è altro da sé), per esistere, ha bisogno di poter essere detto. Allora la poetica di entrambi è stata la ricerca delle parole giuste per dire dell'amore, l’uno guardando dentro alla vita di noi tutti con un microscopio sempre più potente, l’altro con schizzi di colore sempre più vivo sulla tela del conoscibile.
È in nome di questo sforzo, davvero sovrumano, che vedo la rispondenza che, ad esempio, lega il rigore di Gaber che, in Mi fa male il mondo, si arrende solo dopo venti minuti filati di tentativi all’impossibilità di credere in una società capace di avere un io collettivo, all’intuizione, insieme particolare ed universale (che cioè conosce senza sapere) di Jannacci, che, in Musical, tratteggia in un lampo la definitiva vittoria dell’individualismo su qualunque forma di comunione sociale (e ancora prima e di più di linguaggio), cantando de “il Morini che quando arriva non saluta neanche più il tornio”, perché tanto sia lui che il Morini ormai sanno che sarà solo uno di loro due (e non entrambi come prima si era creduto e sperato) “a venir giù da quella scala mobile”, nel finale dello spettacolo della vita.
Alla stessa maniera, ci sono canzoni dell’uno e dell’altro reciprocamente simmetriche, nelle quali Gaber e Jannacci hanno affrontato con l'incoscienza, la purezza e l'intransigenza del vero artista proprio le questioni sulle quali ci è più faticoso misurarci davvero: dalla paura che si ha del diverso (Sogno in due tempi e Sono timido), a se e quanto ancora si possa credere alla forza delle idee (E pensare che c’era il pensiero e Il bonzo), a come sia la stessa vita a consumare inevitabilmente l’amore (È sabato e Io e te).
Insomma, saranno ricordati come autori di canzonette e invece mi hanno parlato di un mucchio di cose, di cui – lo si vede - neppure ora so dire con chiarezza e per le quali non possedevo neppure le parole.
Li ringrazio, per questo. Li ringrazio anche solo per averci provato.