"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

lunedì, agosto 06, 2007

"L'Io non va mai in vacanza." "Ma Lio chi?"

Rivendicando fieramente il personale diritto all’incoerenza, ho aderito alla raccolta di firme per la presentazione di una candidatura indipendente alla leadership del Partito Democratico. L’ho fatto contro i miei convincimenti sul tema, ma l’ho fatto. La ragione è l’amicizia: ho firmato perché potesse candidarsi il compagno di una mia amica. Naturalmente, prima di rilasciare il prezioso autografo, ho comunque sgravato la mia coscienza, facendo mettere a verbale le mie profonde riserve.
Oggi, durante la consueta sosta in autogrill per il caffè e il giornale, leggo su “la Repubblica” un’intervista ad Enrico Letta, in cui il principale antagonista del vincitore designato, Walter Veltroni, lamenta che le procedure regolamentari delle primarie sono a suo dire disegnate per favorire le candidature di chi ha strutture forti alle spalle.
È verissimo e la cosa era tanto chiara sin dall’inizio della competizione, che questa che oggi solleva Letta era una delle questioni dalle quali traevo il mio giudizio del tutto negativo sul complesso dell’operazione PD. La partecipazione della società civile, di cui è senz’altro una sana evidenza la voglia di candidarsi di persone (come il compagno della mia amica) che fino ad oggi non hanno mai voluto impegnarsi in politica a tempo pieno, ha come unico vero effetto quello di dare ad un’operazione che è totalmente verticistica il crisma della democraticità.
Immediatamente, allora, ho mandato un sms alla mia amica per segnalarle l’intervista (e dirle in metatesto “Vedi che avevo ragione?”).
Riparto in macchina, consolato ed anche un po’ soddisfatto nel vedere la mia personale convinzione pubblicamente denunciata sul giornale.
Poi, siccome in the back of my mind (come dicono gli inglesi) c’era il sospetto che ci fosse ben poco di cui essere contenti, ho preso a riconsiderare con attenzione le mie reazioni: cos’era che mi faceva essere tanto soddisfatto? Che tutti leggessero oggi sul giornale il mio pensiero di qualche giorno fa. Una ragione del tutto egoistica. E cosa mi ha portato a sostenere una candidatura alla leadership di un partito di cui non condivido nulla? Prima risposta: “L’amicizia”. Ma poi, implacabilmente: “Sì, ma l’amicizia cos’è? Vera tensione verso l’altro o solo una maniera di sentirsi migliori perché capaci di essere altruisti?”. Quanto c’è dell’una cosa e quanto dell’altra? Quando raccolgo gli spiccioli caduti alla signora che mi precede alla cassa del supermercato, lo faccio perché la mia natura è di curarmi del prossimo o perché mi piace potermi dire che ho la natura di una persona altruista?
Giorgio Gaber diceva in un suo pezzo meraviglioso: “Se, per caso, mi capitasse di fare del bene a qualcuno, mi sentirei più pulito se potessi dire: non l'ho fatto apposta.”
È un problema irresolubile, credo. È impossibile dire anche se si tratti di un problema di misura (se conti più l’una o l’altra componente). E pur ammettendo - per assurdo - di riuscire a capire perfettamente cosa sia il nostro altruismo, sarebbe impossibile anche dire se la risposta avrebbe un senso (grazie al caro Ludwig W. da Vienna).
Dovremmo arrenderci all’impossibilità di dire che una persona è migliore di un’altra, basandoci su come questa si relaziona a ciò che è altro da sé. Anche se resta il fatto che ho raccolto le monete della signora, è impossibile dire se ad animarmi sia stato l’amore verso me o verso ciò che è altro da me.
Siamo, dunque, condannati dal relativismo della conoscenza ad un relativismo della morale.
Mi conforta, a questo punto, ricordare che, all’indomani dell’ascesa al soglio di Pietro di quel teologo da combattimento, fustigatore del Secolo, che è Papa Benedetto XVI, preparai uno striscione di 12 x 2 = 24 fogli A4 da appendersi sopra l’ingresso della porta di casa mia. Vi avevo scritto: “Ebbene sì, Ratzinger, sono un fottuto relativista”.

Poi, però, ricordo anche di non averlo più attaccato, perché non ero davvero sicuro che fosse proprio così.