Presidance
Dentro il Partito Democratico le acque sono comprensibilmente agitate. Chi più apertamente, chi meno, molti dei leader stanno presentando il conto a Walter Veltroni, sia per la sconfitta elettorale, sia per la riluttanza mostrata nel volerne analizzare in maniera formale e collegiale le ragioni.
Uno degli argomenti oggetto di discussione riguarda la Presidenza del PD: pur per ragioni diverse, tutte le principali componenti del partito si dicono (oggi) d’accordo nel ritenere quasi naturale che Presidente sia Romano Prodi. Di quest’ultimo, però, è ben nota la più volte ribadita indisponibilità ad assumere la carica.
Sono giorni, questi, in cui il tema delle priorità dell’agenda politica è assai dibattuto. Vien da chiedersi se la questione di un incarico in genere più onorifico che operativo sia davvero una delle attuali priorità del PD, in questo momento in cui l’economia va male, la società (se possibile) va ancora peggio dell’economia ed il capo del Governo torna a squadernare le fondamenta istituzionali della Repubblica per risolvere le sue proprie beghe personali.
Io credo di sì.
Mentre non vi sono dubbi su come il PD si ponga (e probabilmente continuerà a porsi) rispetto all’esperienza dell’Unione, credo che esso debba chiarire a se stesso che rapporto ha con ciò che sono stati Prodi ed i suoi governi e con l’esperienza dell’Ulivo.
Trovo che la discontinuità che c’è stata con l’insediamento di Veltroni sia stata grandissima. Si dice che il PD di Veltroni sia un partito a vocazione maggioritaria e che questa sua attitudine sia stata dimostrata in primo luogo dalla scelta (ancorché non compiutamente percorsa) di presentarsi da soli alla competizione elettorale. Ancor di più, a mio modo di vedere, l’abito maggioritario è forte nell'affrontare le questioni interne al partito. In virtù del 75% di consensi ottenuto nelle primarie, Walter Veltroni ha abbandonato ogni forma di dialettica interna, non solo relativamente alla definizione della linea politica del partito (che può giudicarsi cosa imprudente, ma non scorretta), ma anche su alcune questioni fondanti il PD stesso, che per l’incapacità di operare una sintesi tra le diverse anime del partito, sono rimaste aperte, prima fra tutte la collocazione sullo scenario politico europeo.
Veltroni vuole Prodi presidente nonostante questa differenza profonda, per ottenere da lui quel placet sulla sua leadership che darebbe al suo 75% formale una corrispondente forza sostanziale. La Bindi vuole Prodi presidente per costringere Veltroni a prendere atto che la sua guida non è oggi e mai potrà essere il regno di un sovrano assoluto, che bisogna riprendere la via del dialogo paziente che Prodi ha sempre seguito nel tentare di armonizzare i percorsi di post-comunisti e post-democristiani e che proprio nell’aver voluto dare per scontati alcuni passaggi identitari si trovino le ragioni dell’entità della sconfitta elettorale.
Prodi, dal canto suo, ha le sue ragioni per negare l’endorsement a Veltroni. In primo luogo, è stata tatticamente incomprensibile la celebrazione delle primarie ad incoronare il leader del nuovo PD a non più di un anno dalla vittoria di Prodi del 2006. Questa situazione non poteva che provocare un logoramento reciproco (si ricorderà, ad esempio, l’attivismo di Veltroni, allora leader in pectore, mal sopportato da Prodi a Palazzo Chigi, all’indomani della morte della povera signora Reggiani), che è stata una delle vere ragioni della caduta del governo di centrosinistra. Secondariamente, ancora una volta per una supposta convenienza tattica, Veltroni ha in campagna elettorale scientificamente ripudiato in toto l’esperienza del governo Prodi. Si può dire che se non ha mai nominato Berlusconi, chiamandolo “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”, altrettanto ha fatto con l’ex presidente del Consiglio, buttando con l’acqua sporca dell’impopolarità anche il bambino del riequilibrio dei conti e di un ciclo economico tornato virtuoso.
Tutto questo si traduce oggi in correnti che si organizzano (D’Alema), in pretese di convocazione degli organi del partito (Bindi), in richieste di cambio al vertice (Parisi).
Un PD acefalo non solo non fermerà Berlusconi (ed anzi avrà la responsabilità di un’eventuale ascesa al Quirinale dell’uomo che più di ogni altro ha diviso il Paese invece di unirlo), ma neppure vincerà mai le elezioni se e quando mai si tornerà a votare. Spero che in primo luogo Veltroni se ne renda conto quanto prima.
Uno degli argomenti oggetto di discussione riguarda la Presidenza del PD: pur per ragioni diverse, tutte le principali componenti del partito si dicono (oggi) d’accordo nel ritenere quasi naturale che Presidente sia Romano Prodi. Di quest’ultimo, però, è ben nota la più volte ribadita indisponibilità ad assumere la carica.
Sono giorni, questi, in cui il tema delle priorità dell’agenda politica è assai dibattuto. Vien da chiedersi se la questione di un incarico in genere più onorifico che operativo sia davvero una delle attuali priorità del PD, in questo momento in cui l’economia va male, la società (se possibile) va ancora peggio dell’economia ed il capo del Governo torna a squadernare le fondamenta istituzionali della Repubblica per risolvere le sue proprie beghe personali.
Io credo di sì.
Mentre non vi sono dubbi su come il PD si ponga (e probabilmente continuerà a porsi) rispetto all’esperienza dell’Unione, credo che esso debba chiarire a se stesso che rapporto ha con ciò che sono stati Prodi ed i suoi governi e con l’esperienza dell’Ulivo.
Trovo che la discontinuità che c’è stata con l’insediamento di Veltroni sia stata grandissima. Si dice che il PD di Veltroni sia un partito a vocazione maggioritaria e che questa sua attitudine sia stata dimostrata in primo luogo dalla scelta (ancorché non compiutamente percorsa) di presentarsi da soli alla competizione elettorale. Ancor di più, a mio modo di vedere, l’abito maggioritario è forte nell'affrontare le questioni interne al partito. In virtù del 75% di consensi ottenuto nelle primarie, Walter Veltroni ha abbandonato ogni forma di dialettica interna, non solo relativamente alla definizione della linea politica del partito (che può giudicarsi cosa imprudente, ma non scorretta), ma anche su alcune questioni fondanti il PD stesso, che per l’incapacità di operare una sintesi tra le diverse anime del partito, sono rimaste aperte, prima fra tutte la collocazione sullo scenario politico europeo.
Veltroni vuole Prodi presidente nonostante questa differenza profonda, per ottenere da lui quel placet sulla sua leadership che darebbe al suo 75% formale una corrispondente forza sostanziale. La Bindi vuole Prodi presidente per costringere Veltroni a prendere atto che la sua guida non è oggi e mai potrà essere il regno di un sovrano assoluto, che bisogna riprendere la via del dialogo paziente che Prodi ha sempre seguito nel tentare di armonizzare i percorsi di post-comunisti e post-democristiani e che proprio nell’aver voluto dare per scontati alcuni passaggi identitari si trovino le ragioni dell’entità della sconfitta elettorale.
Prodi, dal canto suo, ha le sue ragioni per negare l’endorsement a Veltroni. In primo luogo, è stata tatticamente incomprensibile la celebrazione delle primarie ad incoronare il leader del nuovo PD a non più di un anno dalla vittoria di Prodi del 2006. Questa situazione non poteva che provocare un logoramento reciproco (si ricorderà, ad esempio, l’attivismo di Veltroni, allora leader in pectore, mal sopportato da Prodi a Palazzo Chigi, all’indomani della morte della povera signora Reggiani), che è stata una delle vere ragioni della caduta del governo di centrosinistra. Secondariamente, ancora una volta per una supposta convenienza tattica, Veltroni ha in campagna elettorale scientificamente ripudiato in toto l’esperienza del governo Prodi. Si può dire che se non ha mai nominato Berlusconi, chiamandolo “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”, altrettanto ha fatto con l’ex presidente del Consiglio, buttando con l’acqua sporca dell’impopolarità anche il bambino del riequilibrio dei conti e di un ciclo economico tornato virtuoso.
Tutto questo si traduce oggi in correnti che si organizzano (D’Alema), in pretese di convocazione degli organi del partito (Bindi), in richieste di cambio al vertice (Parisi).
Un PD acefalo non solo non fermerà Berlusconi (ed anzi avrà la responsabilità di un’eventuale ascesa al Quirinale dell’uomo che più di ogni altro ha diviso il Paese invece di unirlo), ma neppure vincerà mai le elezioni se e quando mai si tornerà a votare. Spero che in primo luogo Veltroni se ne renda conto quanto prima.