Colle der fomento
La crisi, prima finanziaria, poi economica ed ora già sociale, così difficile a interpretarsi relativamente a cause e fattori scatenanti (i mutui dati a chiunque? Le speculazioni coi derivati? La mancanza di limitazione ai movimenti di capitale? Le cartolarizzazioni? L’economia che ha mangiato la politica e la finanza che ha mangiato a sua volta l’economia? Tutte queste cose assieme?), ha invece, quanto agli effetti che da essa sono scaturiti, risvolti di interpretazione, se non facile, immediata.
Il più evidente è che molti hanno perso, stanno perdendo e perderanno il lavoro. Un altro, credo altrettanto evidente, è che quelli che hanno la fortuna di conservare il proprio posto lavorano di più e con condizioni peggiori. La crisi, i lavoratori, la pagano (cioè la paghiamo) anche così, con maggiore fatica quotidiana, con maggiori frustrazioni, con una minore libertà.
La crisi porta anche una minore capacità di capire quel che succede, come se fosse sempre più assurdo usare il proprio tempo e le proprie scarse residue energie per guardare a fatti che sono estranei al proprio immediato spazio vitale.
Probabilmente con poca lucidità, dunque, m’accingo a riflettere sugli esiti delle elezioni appena celebrate. Il primo elemento su cui mi viene da soffermarmi è il coinvolgimento davvero blando con il quale ho seguito il voto. Nonostante sia vero che il PD correva il rischio di dissolversi, non mi sono sentito sospirare profondamente per lo scampato pericolo. Questo mi accade non perché pensi che il PD debba scomparire, ma perché resto convinto che questo PD isolato, isolazionista e senza identità non serva assolutamente a nulla. In politica sono quello che gli spin doctor chiamerebbero un “cliente ormai fidelizzato”: con un sistema di valori di riferimento ben radicato e con una collocazione ideologica (ah, che strana sensazione scrivere questa parola) ben definita. Ebbene, nonostante questo, il mio sentimento rispetto a questo PD è quello del “tanto peggio, tanto meglio”. Non è l’inquinamento dell’Idea Pura, non è l’avvicinamento al centro (che ritengo un’opportunità e una necessità insieme) alla base del mio distacco, ma la resa rispetto all’ambizione di proporre una propria idea di società. Il povero Franceschini, cui va riconosciuto d’essersi saputo battere con onore (soprattutto sul fronte interno), ha saputo dare una pallida idea di cosa potrebbe essere (e purtroppo non è) il PD in un’unica occasione, quando, per una volta con la nettezza che dovrebbe esserci sempre, ha manifestato sdegno verso i respingimenti preventivi dei clandestini. Un Partito degno della tradizione di PCI e DC difende il diritto internazionale, la legalità e i diritti umani a prescindere dall’impatto elettorale che ciò può avere. Proprio la crisi offre un’opportunità grandissima a chi ha nel suo patrimonio valori come la solidarietà, la legalità e l’uguaglianza e ancora una volta si è invece deciso di veicolare messaggi elementari, inarticolati, rancorosi, esclusivamente centrati sulle (peraltro palesi) insufficienze dell’azione di governo. Se si è fatto tutto questo per ragioni legate all’esito elettorale, ebbene si prenda coscienza che il 26,1% è un risultato perfettamente alla portata anche di un PD che mostri con grande decisione una sua propria identità.
Penso, contrariamente a molti, che il risultato del PdL sia stato numericamente lusinghiero. In una fase di crisi così acuta, i governi (di destra o sinistra che siano) incontrano grandi difficoltà. La contrazione di consensi che, in termini di voti assoluti, Berlusconi ha conosciuto a queste ultime consultazioni europee si deve primariamente all’astensionismo di una Sicilia in cui ha stavolta votato meno del 50% di un corpo elettorale che solitamente garantisce al centrodestra una messe imponente di suffragi.
Nondimeno, sono emersi dalle urne due fatti politici che ritengo pongano al premier più di una difficoltà. Il primo è che i risultati più eclatanti sono stati ottenuti da Lega e Italia dei Valori, ovvero da quei soggetti immediatamente contigui nello schieramento politico ai due maggiori partiti. L’Italia mostra col voto di essere un Paese che non ha voglia di bipartitismo e non desidera una semplificazione del quadro politico che sia artificialmente indotta per il tramite della legge elettorale. Questo, ancor più che le pressioni della Lega, spiegano l’immediato cambio di posizione sul referendum sulla legge elettorale della prossima settimana.
Il secondo elemento di difficoltà per il leader del centrodestra è costituto dal fatto che la dimensione massima, il potenziale complessivo di PdL e Lega, al netto delle redistribuzioni interne di consensi, rimane ben lontano da qualsiasi ipotesi di autosufficienza. Il voto di questa settimana ha dimostrato (non senza rudezze) a Berlusconi che sporgersi verso l’elettorato centrista di area UdC significa lasciare una considerevole parte di consensi alla Lega.
Entrambi questi fattori rendono sempre più difficile che le elezioni politiche si trasformino in quel plebiscito che Berlusconi desidera fortemente e che vede come il proprio personale lasciapassare per il Quirinale.
Quella del Colle è una partita che non so capire come potrà finire, però già da ora guardo ad essa con timore, come ad un passaggio durissimo, da cui il Paese potrebbe uscire definitivamente sfibrato.
Il più evidente è che molti hanno perso, stanno perdendo e perderanno il lavoro. Un altro, credo altrettanto evidente, è che quelli che hanno la fortuna di conservare il proprio posto lavorano di più e con condizioni peggiori. La crisi, i lavoratori, la pagano (cioè la paghiamo) anche così, con maggiore fatica quotidiana, con maggiori frustrazioni, con una minore libertà.
La crisi porta anche una minore capacità di capire quel che succede, come se fosse sempre più assurdo usare il proprio tempo e le proprie scarse residue energie per guardare a fatti che sono estranei al proprio immediato spazio vitale.
Probabilmente con poca lucidità, dunque, m’accingo a riflettere sugli esiti delle elezioni appena celebrate. Il primo elemento su cui mi viene da soffermarmi è il coinvolgimento davvero blando con il quale ho seguito il voto. Nonostante sia vero che il PD correva il rischio di dissolversi, non mi sono sentito sospirare profondamente per lo scampato pericolo. Questo mi accade non perché pensi che il PD debba scomparire, ma perché resto convinto che questo PD isolato, isolazionista e senza identità non serva assolutamente a nulla. In politica sono quello che gli spin doctor chiamerebbero un “cliente ormai fidelizzato”: con un sistema di valori di riferimento ben radicato e con una collocazione ideologica (ah, che strana sensazione scrivere questa parola) ben definita. Ebbene, nonostante questo, il mio sentimento rispetto a questo PD è quello del “tanto peggio, tanto meglio”. Non è l’inquinamento dell’Idea Pura, non è l’avvicinamento al centro (che ritengo un’opportunità e una necessità insieme) alla base del mio distacco, ma la resa rispetto all’ambizione di proporre una propria idea di società. Il povero Franceschini, cui va riconosciuto d’essersi saputo battere con onore (soprattutto sul fronte interno), ha saputo dare una pallida idea di cosa potrebbe essere (e purtroppo non è) il PD in un’unica occasione, quando, per una volta con la nettezza che dovrebbe esserci sempre, ha manifestato sdegno verso i respingimenti preventivi dei clandestini. Un Partito degno della tradizione di PCI e DC difende il diritto internazionale, la legalità e i diritti umani a prescindere dall’impatto elettorale che ciò può avere. Proprio la crisi offre un’opportunità grandissima a chi ha nel suo patrimonio valori come la solidarietà, la legalità e l’uguaglianza e ancora una volta si è invece deciso di veicolare messaggi elementari, inarticolati, rancorosi, esclusivamente centrati sulle (peraltro palesi) insufficienze dell’azione di governo. Se si è fatto tutto questo per ragioni legate all’esito elettorale, ebbene si prenda coscienza che il 26,1% è un risultato perfettamente alla portata anche di un PD che mostri con grande decisione una sua propria identità.
Penso, contrariamente a molti, che il risultato del PdL sia stato numericamente lusinghiero. In una fase di crisi così acuta, i governi (di destra o sinistra che siano) incontrano grandi difficoltà. La contrazione di consensi che, in termini di voti assoluti, Berlusconi ha conosciuto a queste ultime consultazioni europee si deve primariamente all’astensionismo di una Sicilia in cui ha stavolta votato meno del 50% di un corpo elettorale che solitamente garantisce al centrodestra una messe imponente di suffragi.
Nondimeno, sono emersi dalle urne due fatti politici che ritengo pongano al premier più di una difficoltà. Il primo è che i risultati più eclatanti sono stati ottenuti da Lega e Italia dei Valori, ovvero da quei soggetti immediatamente contigui nello schieramento politico ai due maggiori partiti. L’Italia mostra col voto di essere un Paese che non ha voglia di bipartitismo e non desidera una semplificazione del quadro politico che sia artificialmente indotta per il tramite della legge elettorale. Questo, ancor più che le pressioni della Lega, spiegano l’immediato cambio di posizione sul referendum sulla legge elettorale della prossima settimana.
Il secondo elemento di difficoltà per il leader del centrodestra è costituto dal fatto che la dimensione massima, il potenziale complessivo di PdL e Lega, al netto delle redistribuzioni interne di consensi, rimane ben lontano da qualsiasi ipotesi di autosufficienza. Il voto di questa settimana ha dimostrato (non senza rudezze) a Berlusconi che sporgersi verso l’elettorato centrista di area UdC significa lasciare una considerevole parte di consensi alla Lega.
Entrambi questi fattori rendono sempre più difficile che le elezioni politiche si trasformino in quel plebiscito che Berlusconi desidera fortemente e che vede come il proprio personale lasciapassare per il Quirinale.
Quella del Colle è una partita che non so capire come potrà finire, però già da ora guardo ad essa con timore, come ad un passaggio durissimo, da cui il Paese potrebbe uscire definitivamente sfibrato.