"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

sabato, novembre 25, 2006

Kelner, herbata. Dziękuję

Sono seduto al ristorante dell’albergo. La sala è in stile liberty, inizio novecento, interamente in mogano. Un quartetto d’archi suona in fondo alla sala. C’è un odore di Hercule Poirot, anzi di Lawrence d’Arabia. Ed anche io (che mi sono cambiato d’abito prima di venire a cena) sono affettato e dandy come un inglese eccentrico, che sia per qualche sua misteriosa ragione qui, alla periferia dell’Impero. L’Impero non è quello inglese delle colonie, ma è ciò che resta del grande Impero prussiano, le cui vestigia hanno ben resistito durante il tragico Impero sovietico. Leggo, mollemente appoggiata la mia testa su una mano, nell’attesa che un cameriere, vecchio e molto compito, serva il borsch che ho ordinato, annunciandomi la portata in un francese impeccabile. Non è semplicemente un salto indietro nel tempo, una sospensione del procedere degli eventi del mondo. È un singhiozzo della Storia. Mi sembra di poter sapere, ora, cosa si provasse in quei lunghi soggiorni (e non vacanze, perché la vacanza è il tempo che si può usare in mancanza di doveri e all’epoca in cui viaggiava solo chi poteva disporre pienamente del proprio tempo il concetto era semplicemente inutile) ad Aleppo o a Damasco, quando le mogli dei diplomatici davano scandalo per il loro esotico anticonformismo e giravano con una graziosa pistola da donna nella borsetta.
Assaporo il gusto di queste diversità perdute, quando l’inglese non era l’unica lingua comune, fumare era il piacere di una conversazione e non il vizio della solitudine, non esistevano misure standard e l’ipocrisia del politically correct era semplicemente inimmaginata.

Qui, ad Olsztyn, non ci sono altri alberghi.

mercoledì, novembre 01, 2006

Métropole blues

Cammino verso l’ufficio tutte le mattine lungo lo stesso percorso. Osservo, nel freddo più o meno pungente a seconda delle giornate, sempre la stessa scena, ogni giorno diversa: uomini e donne che si affrettano verso il loro prossimo impegno (chissà quanto convinti del senso del proprio correre). Sono colorati, se non altro. A volte, alcuni dettagli mi colpiscono: un ombrello che spunta da una sporta anche quando la giornata non promette pioggia o le scarpe da mercatino di un donnone abbastanza curato, ma irrimediabilmente sgraziato. Gli autobus si svuotano di ragazzini poco lavati, che, annoiati in quelle che le loro informatissime madri chiamano “tute che vestono”, fanno filone e si perdono dentro un sms. Sento l’odore dei caffè e delle brioches mescolarsi con quello degli escrementi dei colombi che invadono da ottobre in poi il piazzale della stazione. Lungo la mia strada, c’è un grande albergo, vecchissimo, che da mesi è in ristrutturazione. Quando lo costeggio, sento i detriti cadere dall’alto, con un frastuono che suona come un oscuro presagio.
Anche oggi, un omino minuto cammina avanti a me di qualche passo. È vestito sempre alla stessa maniera, demodé. L’abito che indossa deve esser stato, all’epoca della sua fattura (senz’altro sartoriale), di grande pregio, ma oggi suggerisce solo profumi di canfora. La giacca, marrone a quadrettini, rimanda a trent’anni fa, alle camicie di Sandro Ciotti, ai baffi di Causio. Ogni giorno, poco prima che io giunga all’incrocio, l’omino sbuca dalla traversa di destra e, sempre un po’ incerto nel passo, procede avanti a me per qualche minuto. Talvolta, s’aiuta con un bastone. Tutti i giorni, facendo il gesto di togliersi il cappello in segno di saluto, sorride alla mendicante che sta accucciata lì in terra, senza però lasciarle mai una moneta.

Poi, anche oggi come sempre, ha svoltato a sinistra alla traversa successiva. E non so dire più di lui.