Africa per noi
Ci insegnano a scuola che l’uomo è giunto all’apice della piramide evolutiva grazie alla sua elevatissima capacità di adattamento all’ambiente. Ognuno di noi, nel corso della propria vita, è in grado di sviluppare, meglio di ogni altro essere vivente sulla terra, le proprie strategie di risposta alle pressioni esterne, così da saper reagire in maniera efficace alle difficoltà che incontra.
Qui, nel cosiddetto primo mondo, sappiamo da tempo come appagare i nostri bisogni primari (mettere insieme il pranzo con la cena). Questo, però, lungi dal darci serenità, genera in noi desideri molto più sofisticati, che facciamo gran fatica a soddisfare e che ci rendono infelici.
In fondo, la società occidentale basata sui consumi ha terribilmente bisogno - per poter prosperare - della nostra frustrazione e dei bisogni che da essa scaturiscono. Di più, i signori neri del marketing, con strumenti sempre più raffinati, stimolano continuamente i nostri bisogni latenti, facendo leva sulle nostre pulsioni più intime. Estraggono dai nostri pozzi il vero propellente del sistema economico: l’infelicità.
Allora vogliamo donne eternamente belle e uomini potenti. Vogliamo macchine prestigiose e vestiti preziosi. Odiamo il nostro capo, con tutte le nostre forze, perché vorremmo essere come lui. Vogliamo dimostrare agli altri il nostro potere (per piccolo che esso sia), esercitandolo in maniera arbitraria e terrorizzante. Vogliamo essere accettati da chiunque, a qualsiasi costo, in qualunque contesto: l’importante è essere in gruppo ed avere qualcuno sotto di noi. È una vita, la nostra, totalmente permeata dall’angoscia, anzi dalla paura del giudizio altrui. La sola cosa che ci dà brevi momenti di pace (non credo di poterla chiamare felicità) è sentire l’invidia degli altri compagni di catena. Questo ci fa presumere di non essere gli ultimi in fondo alla lista e ci rassicura per un po’.
Due persone a me molto care, ciascuna per proprio conto, sono state in Africa quest’anno. Quando ho chiesto loro di dirmi della loro esperienza, la prima cosa che ambedue hanno avuto praticamente l’urgenza di raccontare è stata la difficoltà a rientrare in un sistema di vita totalmente governato da bisogni irragionevoli e paure irrazionali. Mi hanno detto di un vero e proprio smarrimento nel non saper riconoscere più le ragioni dell’importanza fondamentale che siamo soliti attribuire ad alcuni aspetti della nostra vita quotidiana. L’Africa porta, necessariamente, ad essere essenziali e a riappropriarsi di quelle felicità semplici che qui diamo sempre per scontate. Entrambe mi hanno parlato di un periodo di almeno una decina di giorni in cui sono state combattute da sentimenti in reale contrasto tra loro: da un lato la voglia di rimanere aggrappati alla felicità nuda, viva, reale, immediata, saporita che l’Africa ha donato loro, dall’altro il desiderio di tornare a quel pezzo di mondo ormai aderente in maniera perfetta alle loro forme. Come se, tornate, non vedessero l’ora di riavere conficcata nella pelle quella spina che era in loro da sempre e che l’Africa gli aveva tolto.
La mia Africa è Paolo Conte.
Qui, nel cosiddetto primo mondo, sappiamo da tempo come appagare i nostri bisogni primari (mettere insieme il pranzo con la cena). Questo, però, lungi dal darci serenità, genera in noi desideri molto più sofisticati, che facciamo gran fatica a soddisfare e che ci rendono infelici.
In fondo, la società occidentale basata sui consumi ha terribilmente bisogno - per poter prosperare - della nostra frustrazione e dei bisogni che da essa scaturiscono. Di più, i signori neri del marketing, con strumenti sempre più raffinati, stimolano continuamente i nostri bisogni latenti, facendo leva sulle nostre pulsioni più intime. Estraggono dai nostri pozzi il vero propellente del sistema economico: l’infelicità.
Allora vogliamo donne eternamente belle e uomini potenti. Vogliamo macchine prestigiose e vestiti preziosi. Odiamo il nostro capo, con tutte le nostre forze, perché vorremmo essere come lui. Vogliamo dimostrare agli altri il nostro potere (per piccolo che esso sia), esercitandolo in maniera arbitraria e terrorizzante. Vogliamo essere accettati da chiunque, a qualsiasi costo, in qualunque contesto: l’importante è essere in gruppo ed avere qualcuno sotto di noi. È una vita, la nostra, totalmente permeata dall’angoscia, anzi dalla paura del giudizio altrui. La sola cosa che ci dà brevi momenti di pace (non credo di poterla chiamare felicità) è sentire l’invidia degli altri compagni di catena. Questo ci fa presumere di non essere gli ultimi in fondo alla lista e ci rassicura per un po’.
Due persone a me molto care, ciascuna per proprio conto, sono state in Africa quest’anno. Quando ho chiesto loro di dirmi della loro esperienza, la prima cosa che ambedue hanno avuto praticamente l’urgenza di raccontare è stata la difficoltà a rientrare in un sistema di vita totalmente governato da bisogni irragionevoli e paure irrazionali. Mi hanno detto di un vero e proprio smarrimento nel non saper riconoscere più le ragioni dell’importanza fondamentale che siamo soliti attribuire ad alcuni aspetti della nostra vita quotidiana. L’Africa porta, necessariamente, ad essere essenziali e a riappropriarsi di quelle felicità semplici che qui diamo sempre per scontate. Entrambe mi hanno parlato di un periodo di almeno una decina di giorni in cui sono state combattute da sentimenti in reale contrasto tra loro: da un lato la voglia di rimanere aggrappati alla felicità nuda, viva, reale, immediata, saporita che l’Africa ha donato loro, dall’altro il desiderio di tornare a quel pezzo di mondo ormai aderente in maniera perfetta alle loro forme. Come se, tornate, non vedessero l’ora di riavere conficcata nella pelle quella spina che era in loro da sempre e che l’Africa gli aveva tolto.
La mia Africa è Paolo Conte.