"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

lunedì, settembre 01, 2008

I love this game

Io amo il calcio. Penso sia davvero il gioco più bello del mondo. Forse in nessun altro sport come nel calcio il risultato di una gara è così in bilico tra il poter essere deciso dall’invenzione di un singolo o dal furioso applicarsi di un coro senza corifei.
Ogni estate, nel periodo di secca, m’aiuto con lo sciocco vaniloquio del calciomercato e tento di autoconvincermi che l’attesa è davvero il più sublime dei piaceri. Insomma, consumo calcio, in maniera consapevole e convinta. Faccio parte di quella fitta schiera di calciofili che per vedere la miseria di venti minuti di servizi sulle partite della domenica, invece di rifiutarsi come orgoglio e dignità pretenderebbero, si beve pomeriggi di pessima tv, fatta di chiacchiere false e tonnellate di pubblicità.
Questo breve, eppur necessario, autodafé serve a dire che non sono in alcun modo apparentabile a coloro che sono soliti sdegnarsi per gli stipendi astronomici dei calciatori, a quelli che considerano una partita di calcio lo spettacolo di ventidue imbecilli in braghette dietro ad un pallone, ai tanti puri di cuore che, ogni quattro anni, in corrispondenza dei Giochi Olimpici, riscoprono quanta maggiore dignità risieda negli atleti del Keirin.
So accettare l’avida falsità dei procuratori, l’idiozia della moviola, il cinismo delle radio private che danno voce a tifosi che non hanno nulla da dire, la mancanza di qualsiasi etica nei rapporti tra squadre, a confronto delle quali le contrade del palio di Siena somigliano ad educande sprovvedute e ingenue.
C’è, però, una cosa che arriva a guastarmi il piacere del pallone, là dove non possono la cupidigia economica, l’insulsaggine e la disonestà: il tifo ultrà.
È notizia di ieri che i passeggeri dell’Intercity Napoli-Torino, in possesso di regolare titolo di viaggio, per provvedimento delle autorità di pubblica sicurezza, sono stati fatti scendere dal treno, a causa della presenza sul convoglio dei tifosi del Napoli, di nuovo in trasferta alla volta della Capitale dopo sette anni di divieti. Il provvedimento ha avuto certamente ragion d’essere, dal momento che all’arrivo alla stazione di Roma Termini il treno riportava danni per circa 500.000€.
Certo è gravissimo e realmente insopportabile che la collettività debba ripagare i costi di questo scempio. Non è però neppure questo che riesce ad inquinare la mia passione calcistica. Quel che davvero, in ormai sempre meno rari momenti di lucidità, mi rende impossibile continuare a consumare calcio è vederlo utilizzato come pretesto per una guerra eversiva.
Il solito, pervasivo conflitto di interessi del signor B. (proprietario di squadra e proprietario delle televisioni che comprano gli eventi calcistici) rende meno semplice che sui media si chiamino le cose con il proprio nome. Si parla di teppisti che non sono tifosi, si compatiscono le povere menti che si fanno coinvolgere da una delirante idolatria congiunta di Totti e Mussolini, si offrono raffinate letture sociologiche del disagio giovanile, si condanna duramente la violenza, si piangono i morti. Quasi da nessuna parte, però, si scrive o si dice che siamo di fronte ad un fenomeno di terrorismo eversivo, non so dire se più o meno grave del brigatismo, ma che certamente di quest’ultimo ha la medesima natura.
Da anni, ormai, le tifoserie (fatte salve alcune luminose eccezioni che pure non ci vogliamo far mancare) non combattono più le une contro le altre, ma uniscono i loro mezzi contro un nemico comune: lo Stato. La guerra ha per oggetto principale l’extraterritorialità dei luoghi del calcio: stadi, treni, autogrill, strade. Gli ultrà vogliono affermare il principio che, là dove c’è calcio, non vige più il sistema delle regole dello Stato, ma uno alternativo che lo Stato deve rassegnarsi a concertare con loro. Ho sentito esprimere ieri sera in tv moderata soddisfazione perché almeno stavolta non s’è dovuto raccogliere nessuno da terra. Ovviamente rende felici che nessuno abbia perso la vita. Non si può però dirsi soddisfatti di alcunché: se il punto vero del conflitto è l’accreditamento degli ultrà come parte belligerante, qualunque concessione, qualsiasi “apertura di credito” è già una sconfitta. La vittoria dello Stato, ahinoi, passa per le difficoltà che gli appassionati veri, i padri con i figli, desiderosi di vedersi la partita, sopportano per recarsi allo stadio, nella convinzione che se c’è un’emergenza da gestire, allora si accetta di veder compresse le proprie libertà: mostrare i documenti di identità per acquistare biglietti, non poter acquistare i tagliandi direttamente allo stadio, essere perquisiti fuori ed spiati dalle telecamere all’interno dello stadio. Se una lotta intransigente contro il tifo ultrà ha come prezzo tutto questo, ebbene sono contento di pagarlo e che si chieda di pagarlo a noi cittadini. In questo senso, allora, qualsiasi “apertura di credito” è un errore, anzi è un tradimento verso la società civile, che alla fine è la sola a patire veramente gli ostacoli della blindatura e della militarizzazione degli stadi.
Il tifo organizzato, con buona pace delle varie curve, non è parte diretta dell’evento calcio. Gli ultrà, nonostante i loro sforzi criminali, sono e restano un fatto accessorio, senza il quale il calcio può giocarsi magnificamente e, anzi, meglio. Il punto più basso a cui si è arrivati fu in un derby romano della primavera di quattro anni fa, che fu sospeso quando circolò la notizia, poi rivelatasi del tutto infondata, di una bambina investita ed uccisa da un’auto della polizia. I capi delle tifoserie entrarono in campo a “spiegare” a giocatori, giudici di gara e delegati della Lega calcio, che non c’erano più le condizioni per proseguire. E la partita, in un improvvisato summit di pubblica sicurezza, nel quale gli ultrà hanno avuto la parola definitiva, venne sospesa.
Tutto questo è non solo intollerabile, ma anche pericoloso e richiede una risposta forte, immediata, frontale. In ogni curva ci sono pochi capibastone, che utilizzano il collante dell’ideologia politica per accrescere e compattare la propria falange di ragazzi sempre più giovani. Con l’occasione, mentre arruolano e forgiano, realizzano fatturati di tutto rispetto. Per il bene del Paese (non del calcio), ritengo indispensabile che lo Stato agisca verso di loro come è doveroso fare di fronte a una strategia eversiva, che punta a minare (sia pure in un contesto definito e limitato, quello calcistico) l’ordine costituito.
Come insegna la storia di Al Capone, anche l’evasione fiscale può andare bene.