Ossimori emotivi
Non so dire se si provi più rabbia o rassegnazione nel leggere le cronache degli scontri tra studenti avvenuti a Piazza Navona, di fronte a forze di polizia immobili colpite da fulminante apatia. La rassegnazione nasce dal prendere atto che ormai assistiamo a fatti estremamente gravi come quello accaduto ieri, lasciandoceli scivolare addosso senza reagire, guardandoli alla tv con il terribile distacco che riserviamo alle vittime di lontani terremoti in regioni sperdute del Medio Oriente.
Eppure, già nelle settimane scorse, si era stigmatizzato un atteggiamento del Presidente del Consiglio, se non di interesse, quantomeno di partecipata attesa, riguardo alla possibilità che le pacifiche manifestazioni di contrarietà al decreto Gelmini venissero funestate da violenze fra partecipanti. Ricordo il timido Veltroni lanciare l’allarme per la definizione di “facinorosi” che il premier aveva riservato agli studenti manifestanti. Oggi, anche facendolo con un maggiore vigore che Veltroni non mostra di avere, riuscire a spiegare agli Italiani quanto pericolose possano essere le parole è impossibile. Nel corso degli ultimi quindici anni, Berlusconi ha dimostrato (convincendo pienamente i suoi avversari a mutuarne gli atteggiamenti) come la comunicazione politica debba essere confezionata come se si parlasse ad un bambino di dodici anni. Il sottoprodotto di ciò (gli storici sapranno dire se e quanto esso sia stato voluto o meno) è che oggi quasi l’intero mondo della comunicazione appare regredito a tal punto da parlare esso stesso come un bambino di dodici anni. Ormai “agguerriti”, “esaltati”, “scalmanati”, “facinorosi”, “violenti”, “comunisti” e “fascisti” sono, alfine, divenuti sinonimi e questa indistinta confusione lessicale ha generato simmetricamente un'incapacità ed una mancanza di volontà di analizzare, contestualizzare e, in definitiva, spiegare quel che accade. Oggi a nessuno è chiesto conto delle parole che usa, tanto che nella politica è ormai sempre più in voga l’abito di rilasciare dichiarazioni, che, saggiatone in tempo quasi reale l’impatto, vengono immediatamente corredate di un’interpretazione ufficiale, autentica. Tutto così è sottratto a qualsiasi valutazione indipendente e nessuno deve mai rispondere di alcunché.
Di qualche giorno fa sono i mirati consigli che il Presidente emerito Cossiga ha voluto dare a mezzo stampa al suo successore al Viminale Maroni. La rassegnazione è anche nel vedere quanto frusto sia ormai il ricettario delle sconcezze politiche: la solita manipolazione della pubblica opinione, la solita infiltrazione di soggetti consapevoli o strumentalizzati, la solita repressione del dissenso con il beneplacito della maggioranza silenziosa ed abbindolata. E dunque, per tornare a ieri, il solito camioncino di persone venute a menare un po’ le mani, a sentirsi un po’ più importanti del nulla che sono e ad eseguire il proprio compitino, esattamente come altri avevano deciso dovessero fare.
Sono cose già viste centinaia di volte in Italia.
E la rabbia? Lo scontro politico degli anni settanta aveva ad oggetto l’idea stessa di Stato, la nostra collocazione nel mondo. Ci si spendeva con vigore (fino ad eccessi che hanno generato mostri, come tutti sappiamo) per cambiare la propria posizione sociale, per chiedere un mondo migliore ed una società più giusta. Si perseguivano, cioè, obiettivi, se non si vuol dirli alti o nobili, comunque ambiziosi, ai quali in ogni epoca uomini di ogni convinzione hanno scelto di consacrare la propria vita.
Beh, la rabbia è constatare come oggi la nostra passione politica si risolva in maniera praticamente esclusiva nell’azzuffarci affinché la fazione alla quale abbiamo deciso di appartenere sia vincente e possa consolidarsi al potere. Viceversa poco o nulla interessa oggi dei contenuti della politica, cioè di ciò che dovremmo considerare il fine ultimo della nostra stessa partecipazione politica.
L’Italia, oggi, è un impenitente Dongiovanni, che, ricevuto finalmente il fatidico invito a salire su a bere qualcosa, sorride, esulta, rimonta in macchina e va a casa a vedere la tv.
Eppure, già nelle settimane scorse, si era stigmatizzato un atteggiamento del Presidente del Consiglio, se non di interesse, quantomeno di partecipata attesa, riguardo alla possibilità che le pacifiche manifestazioni di contrarietà al decreto Gelmini venissero funestate da violenze fra partecipanti. Ricordo il timido Veltroni lanciare l’allarme per la definizione di “facinorosi” che il premier aveva riservato agli studenti manifestanti. Oggi, anche facendolo con un maggiore vigore che Veltroni non mostra di avere, riuscire a spiegare agli Italiani quanto pericolose possano essere le parole è impossibile. Nel corso degli ultimi quindici anni, Berlusconi ha dimostrato (convincendo pienamente i suoi avversari a mutuarne gli atteggiamenti) come la comunicazione politica debba essere confezionata come se si parlasse ad un bambino di dodici anni. Il sottoprodotto di ciò (gli storici sapranno dire se e quanto esso sia stato voluto o meno) è che oggi quasi l’intero mondo della comunicazione appare regredito a tal punto da parlare esso stesso come un bambino di dodici anni. Ormai “agguerriti”, “esaltati”, “scalmanati”, “facinorosi”, “violenti”, “comunisti” e “fascisti” sono, alfine, divenuti sinonimi e questa indistinta confusione lessicale ha generato simmetricamente un'incapacità ed una mancanza di volontà di analizzare, contestualizzare e, in definitiva, spiegare quel che accade. Oggi a nessuno è chiesto conto delle parole che usa, tanto che nella politica è ormai sempre più in voga l’abito di rilasciare dichiarazioni, che, saggiatone in tempo quasi reale l’impatto, vengono immediatamente corredate di un’interpretazione ufficiale, autentica. Tutto così è sottratto a qualsiasi valutazione indipendente e nessuno deve mai rispondere di alcunché.
Di qualche giorno fa sono i mirati consigli che il Presidente emerito Cossiga ha voluto dare a mezzo stampa al suo successore al Viminale Maroni. La rassegnazione è anche nel vedere quanto frusto sia ormai il ricettario delle sconcezze politiche: la solita manipolazione della pubblica opinione, la solita infiltrazione di soggetti consapevoli o strumentalizzati, la solita repressione del dissenso con il beneplacito della maggioranza silenziosa ed abbindolata. E dunque, per tornare a ieri, il solito camioncino di persone venute a menare un po’ le mani, a sentirsi un po’ più importanti del nulla che sono e ad eseguire il proprio compitino, esattamente come altri avevano deciso dovessero fare.
Sono cose già viste centinaia di volte in Italia.
E la rabbia? Lo scontro politico degli anni settanta aveva ad oggetto l’idea stessa di Stato, la nostra collocazione nel mondo. Ci si spendeva con vigore (fino ad eccessi che hanno generato mostri, come tutti sappiamo) per cambiare la propria posizione sociale, per chiedere un mondo migliore ed una società più giusta. Si perseguivano, cioè, obiettivi, se non si vuol dirli alti o nobili, comunque ambiziosi, ai quali in ogni epoca uomini di ogni convinzione hanno scelto di consacrare la propria vita.
Beh, la rabbia è constatare come oggi la nostra passione politica si risolva in maniera praticamente esclusiva nell’azzuffarci affinché la fazione alla quale abbiamo deciso di appartenere sia vincente e possa consolidarsi al potere. Viceversa poco o nulla interessa oggi dei contenuti della politica, cioè di ciò che dovremmo considerare il fine ultimo della nostra stessa partecipazione politica.
L’Italia, oggi, è un impenitente Dongiovanni, che, ricevuto finalmente il fatidico invito a salire su a bere qualcosa, sorride, esulta, rimonta in macchina e va a casa a vedere la tv.