Long time no see
La letteratura d’ogni genere e livello è popolata di personaggi (quasi sempre si tratta in verità di giovani fanciulle) che dolori troppo forti hanno resi muti, reclusi in un recinto dell’anima, protetti da silenzi invalicabili. Sono persone gentili e spezzate, non più desiderose (o interessate o semplicemente capaci) di far sì che una parte di sé - un pensiero, un’emozione - sia condivisa con altri. È condizione assai misera, tanto che verso questi personaggi il lettore prova immediatamente un sentimento di simpatia.
Persone così non abitano esclusivamente i romanzi. Non sono uno psicologo e non so, perciò, individuare con certezza le ragioni per le quali ci si autoesclude dal consesso dei propri simili.
Ci si difende da possibili future nuove sofferenze? Si vuole punire gli altri con il proprio sdegnato rifiuto? È la consunzione di ogni fiducia nella forza e nell’utilità della parola? O, invece, è una forte paura di se stessi e delle proprie pulsioni che porta a rinchiudersi in sé? Forse tutte queste cose assieme. Ripeto, non lo so.
So solo che oggi scrivo su questo blog dopo più di tredici mesi di silenzio. Di esso, in questo lungo periodo, ho ovviamente cercato di capire le ragioni. Ne ho trovate più d’una e ognuna di esse contiene senz’altro una parte di verità.
Di certo l’intensità delle mie giornate (come di quelle di tutti coloro che lavorano e cercano di non lasciare che il lavoro sia il dominus incontrastato della propria vita) non mi consente di far sedimentare tutte le informazioni che pure con fatica cerco di mettere insieme. Si scrive senz’altro ciò che si è pensato e l’esercizio del pensiero richiede tempo e, soprattutto, forza. A volte mi sembra di essere su un treno a guardare il mondo che scorre svelto dal finestrino: vedi una casa e subito dopo un albero, ma di quella casa e di quell’albero sai dire soltanto che essi sono una casa e un albero.
Sono anche stato tentato di credere che questa lunga interruzione delle mie trasmissioni si dovesse alla sensazione (niente affatto gradevole) d’aver già detto molto, se non tutto, e che scrivere nuovamente significasse tutt’al più ribadire - magari meglio, con nuovi argomenti e nuovi esempi - gli stessi contenuti.
È scoraggiante, spesso, rendersi conto di non aver niente da dire.
Se, come dissi nel primo post di quasi cinque anni fa, questo blog è stato aperto in omaggio alle piccole mistificazioni, ebbene ho tenuto ferma la barra con insospettabile coerenza, perché in verità il mio silenzio non si deve alla mancanza di tempo o di argomenti. Quelle ragioni (pur fondate) sono state solo il modo sottile con cui ho provato a sedare l’inquietudine che mi provocava non avvertire alcuna voglia di comunicare.
Credo, invece, di non aver più scritto per mancanza di coraggio.
L’odio è un sentimento che non mi concedo. Ho sempre cercato di non odiare mai nessuno, fin qui – credo – riuscendoci. Non sono invidioso, né della fortuna, né della bravura altrui. Ho cercato di concentrarmi molto su quanto posso e so fare io. Sono profondamente convinto che far le cose al proprio meglio sia in sé un obiettivo e un risultato nella vita. Sono anche aperto e fiducioso verso il prossimo, credo che la biodiversità sia una ricchezza per l’uomo prima ancora che per l’ambiente e ancora confido – come ricorda ogni tanto Ivano Fossati – che il buon senso possa salvarci da tutto e tutti.
In quest’ultimo anno, però, non ho avuto il coraggio di accettare che se avessi scritto – che so – della vicenda di Adro, non sarei stato più capace di prendermi in giro e liquidare la vicenda con la solita, facile, magari veemente, intemerata contro le mattane leghiste. Ho avuto paura di scrivere la verità e cioè che io questa stupidità, ormai, la odio.
Io odio questa gente che costringe gli altri a misurarsi con la loro stupidità.
Se le famiglie della vicenda di Sarah Scazzi o le gemelle Cappa del delitto di Garlasco che, rivelando una pochezza umana che non si può neppure raccontare, non hanno avuto alcuno scrupolo a strumentalizzare le loro stesse vittime per un po’ di felicità mediatica, mi fanno pena (non pietà), quelli che, morbosi, stanno davanti alla televisione a guardare questa gente raccontare, piangere, incolparsi a vicenda, io, ormai, li odio. Non è che li disprezzo. Li odio proprio.
Io odio quelli che, di fronte ad un qualsiasi argomento, dicono che “però hanno cominciato quelli dell’altra parte”. Non sono più disposto ad accettare questo pressappochismo umano, l’indifferenza assoluta verso tutto ciò che non sia interesse immediato e personale, l’incapacità di considerare l’esistenza di tutto ciò che è altro da sé.
Mi sento invaso da gente diversa da me, che non ha alcun rispetto per il modo in cui penso e vivo. Io, finalmente l’ho capito, questa gente ho iniziato ad odiarla. Ho capito e mi sono disprezzato.
È questo che non volevo vedere di me. È il coraggio di sapermi abitato dall’odio che mi è mancato fin qui. È questo il cancro che non volevo sputare fuori dalla bocca e che mi sono tenuto dentro assieme alle parole.
Persone così non abitano esclusivamente i romanzi. Non sono uno psicologo e non so, perciò, individuare con certezza le ragioni per le quali ci si autoesclude dal consesso dei propri simili.
Ci si difende da possibili future nuove sofferenze? Si vuole punire gli altri con il proprio sdegnato rifiuto? È la consunzione di ogni fiducia nella forza e nell’utilità della parola? O, invece, è una forte paura di se stessi e delle proprie pulsioni che porta a rinchiudersi in sé? Forse tutte queste cose assieme. Ripeto, non lo so.
So solo che oggi scrivo su questo blog dopo più di tredici mesi di silenzio. Di esso, in questo lungo periodo, ho ovviamente cercato di capire le ragioni. Ne ho trovate più d’una e ognuna di esse contiene senz’altro una parte di verità.
Di certo l’intensità delle mie giornate (come di quelle di tutti coloro che lavorano e cercano di non lasciare che il lavoro sia il dominus incontrastato della propria vita) non mi consente di far sedimentare tutte le informazioni che pure con fatica cerco di mettere insieme. Si scrive senz’altro ciò che si è pensato e l’esercizio del pensiero richiede tempo e, soprattutto, forza. A volte mi sembra di essere su un treno a guardare il mondo che scorre svelto dal finestrino: vedi una casa e subito dopo un albero, ma di quella casa e di quell’albero sai dire soltanto che essi sono una casa e un albero.
Sono anche stato tentato di credere che questa lunga interruzione delle mie trasmissioni si dovesse alla sensazione (niente affatto gradevole) d’aver già detto molto, se non tutto, e che scrivere nuovamente significasse tutt’al più ribadire - magari meglio, con nuovi argomenti e nuovi esempi - gli stessi contenuti.
È scoraggiante, spesso, rendersi conto di non aver niente da dire.
Se, come dissi nel primo post di quasi cinque anni fa, questo blog è stato aperto in omaggio alle piccole mistificazioni, ebbene ho tenuto ferma la barra con insospettabile coerenza, perché in verità il mio silenzio non si deve alla mancanza di tempo o di argomenti. Quelle ragioni (pur fondate) sono state solo il modo sottile con cui ho provato a sedare l’inquietudine che mi provocava non avvertire alcuna voglia di comunicare.
Credo, invece, di non aver più scritto per mancanza di coraggio.
L’odio è un sentimento che non mi concedo. Ho sempre cercato di non odiare mai nessuno, fin qui – credo – riuscendoci. Non sono invidioso, né della fortuna, né della bravura altrui. Ho cercato di concentrarmi molto su quanto posso e so fare io. Sono profondamente convinto che far le cose al proprio meglio sia in sé un obiettivo e un risultato nella vita. Sono anche aperto e fiducioso verso il prossimo, credo che la biodiversità sia una ricchezza per l’uomo prima ancora che per l’ambiente e ancora confido – come ricorda ogni tanto Ivano Fossati – che il buon senso possa salvarci da tutto e tutti.
In quest’ultimo anno, però, non ho avuto il coraggio di accettare che se avessi scritto – che so – della vicenda di Adro, non sarei stato più capace di prendermi in giro e liquidare la vicenda con la solita, facile, magari veemente, intemerata contro le mattane leghiste. Ho avuto paura di scrivere la verità e cioè che io questa stupidità, ormai, la odio.
Io odio questa gente che costringe gli altri a misurarsi con la loro stupidità.
Se le famiglie della vicenda di Sarah Scazzi o le gemelle Cappa del delitto di Garlasco che, rivelando una pochezza umana che non si può neppure raccontare, non hanno avuto alcuno scrupolo a strumentalizzare le loro stesse vittime per un po’ di felicità mediatica, mi fanno pena (non pietà), quelli che, morbosi, stanno davanti alla televisione a guardare questa gente raccontare, piangere, incolparsi a vicenda, io, ormai, li odio. Non è che li disprezzo. Li odio proprio.
Io odio quelli che, di fronte ad un qualsiasi argomento, dicono che “però hanno cominciato quelli dell’altra parte”. Non sono più disposto ad accettare questo pressappochismo umano, l’indifferenza assoluta verso tutto ciò che non sia interesse immediato e personale, l’incapacità di considerare l’esistenza di tutto ciò che è altro da sé.
Mi sento invaso da gente diversa da me, che non ha alcun rispetto per il modo in cui penso e vivo. Io, finalmente l’ho capito, questa gente ho iniziato ad odiarla. Ho capito e mi sono disprezzato.
È questo che non volevo vedere di me. È il coraggio di sapermi abitato dall’odio che mi è mancato fin qui. È questo il cancro che non volevo sputare fuori dalla bocca e che mi sono tenuto dentro assieme alle parole.