"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

domenica, aprile 23, 2006

Il Signore nell'anello

Un anello. C’è della magia in un anello. È un simbolo, come la promessa di una vera nuziale o il sigillo di un Re. Forse, nella violazione da parte di un volgare dito di quello spazio circoscritto dal metallo (nobile o spurio che esso sia) o dal legno o dall’osso o dalla pietra c’è quella ricomposizione tra dentro e fuori, tra bianco e nero, tra vuoto e pieno che consente ai mortali di innalzarsi. È un gesto ancestrale quello di infilare un anello. È il gesto di chi impalma una sposa, di chi prende una donna, di chi si fa uomo. E come diventa nobile una mano ornata da un anello! E che misteri nel suo significare! Il pollice. L’unicità del suo Essere è la sua Opponibilità. Essa è santificata dall’anello, che testimonia quella cromosomica diversità, che ha regalato all’Uomo un destino diverso. E non migliore. Il pollice è il dito che plasma. Il Pollice è Dio.

Difficile è scrivere o scrivere bene?

Una delle frasi che sentiamo più spesso dire è: “Il confine tra pazzia e normalità è davvero sottile”. Però tutti, in fondo, la prendiamo per un esercizio di stile, una riflessione parafilosofica non impegnativa che si può tirare fuori all’occorrenza nel corso di conversazioni più o meno intelligenti. Tra le altre citerei: “Venezia è bellissima, ma non so se ci vivrei”, “Si stava meglio quando si stava peggio”, “Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno” fino ad arrivare alla sublime “Tanto ormai non gliene frega più niente a nessuno”. Ebbene, confesso di avere talvolta la sensazione che questa frase assuma per me un significato reale, vero. Mi capita di avere pensieri strambi e, lucidamente, accorgermene. È una sensazione sgradevole. Per fortuna, immediatamente dopo, mi viene da ridere di me stesso e di quel che penso. Credo sia questo a far sì che io resti ben piantato al di qua di quel confine tanto labile.
Ad esempio, mi accade di pensare, in quello che è senza dubbio un delirio di onnipotenza, che avrei scritto arrangiamenti migliori di quelli delle canzoni che ho sentito all’ultimo Sanremo ed immediatamente dopo accorgermi che le quattro canzoni che sono stato capace di scrivere in dieci anni neanche mi piacciono. Allora mi dico che la verità è in mezzo, che non sono così bravo e nemmeno così scarso. Poi, ci penso ancora un po’ su, mastico e rimastico ed inevitabilmente mi accorgo che non è così. Mi rendo conto che si tratta solo di un’elegante mistificazione con la quale tento di buggerare me stesso. Allora, mi dico, sono contemporaneamente bravo e scarso. È possibile questo? Per fortuna, rido. Anzi, sorrido. Ridere è un po’ dileggiare, non è partecipativo.
Rileggo quello che ho scritto e mi fermo sulla frase “Sono talmente sulla corda e da talmente tanto tempo…”. Non la trovate, perché l’ho cancellata. Essa è rivelatrice di un mio atteggiamento profondamente sbagliato. La vita non dovrebbe essere una guerra e, invece, quelle sono parole di chi è impegnato in una lotta senza quartiere. Allora perché mi è uscita fuori? Innanzitutto le difficoltà ci sono per tutti e per molti altri sono ben peggiori delle mie. Allora perché mi concedo questa retorica da eroe romantico che si batte contro tutto e tutti? Cosa voglio (devo) dimostrare? Che sono un genio incompreso, uno che è in grado di fare qualunque cosa senza sforzo, un unto dal Signore? Ma, soprattutto, contro chi la faccio ‘sta benedetta guerra?
Gira che ti rigira, alla fine, la risposta è una e, questa volta, per fortuna, chiarissima: la faccio contro di me. Sono io il mio peggior nemico. Un momento, però: in realtà, io mi amo profondamente. Sono una persona capace, intelligente, simpatica, brillante, consapevole. Ma sono anche pesante, incapace di accettarmi, arrogante, supponente e chi più ne ha più ne metta.
Nessuno mi ama come mi amo io, nessuno mi odia come mi odio io. Paolo Conte ha scritto una canzone che fa esattamente così. Io non scriverò mai canzoni come quelle di Paolo Conte. È un fatto che posso accettare: i livelli di eccellenza assoluta non possono essere pretesi. Ma allora vale la pena scrivere canzoni? Vengo e mi spiego: non credo che le mie canzoni siano belle perché le scrivo io, forse le mie canzoni non sono neanche belle. Ma allora perché fare tutta questa fatica? Perché inseguire con tutte le mie forze un risultato che, al massimo, appagherà nella migliore delle ipotesi soltanto me stesso? Perché, sin da Adamo ed Eva, siamo irrimediabilmente vocati all'Hybris.
Jacopo Belbo, quando scoprì che non sarebbe mai stato un protagonista (non tanto per mancanza di talento, quanto per mancanza di coraggio), decise di diventare il migliore spettatore possibile, il più arguto, informato, consapevole. Però, anche lui, nel ventre di Abulafia, non ha resistito alla tentazione di farsi demiurgo, massima aspirazione della debole natura umana. Lì nascondeva i suoi tesori. Ma da chi e perché? Scriveva per sé, ormai. Demiurgo sì, ma di un universo privato, personale, imploso. Che bisogno aveva di essere carbonaro contro se stesso?
La creazione non è cosa umana, uno se ne accorge e se ne vergogna. Ecco perché.

venerdì, aprile 14, 2006

Panta rei

Leggendo il giornale, apprendo che in Italia è in atto un tentativo di golpe, opera del Presidente del Consiglio che non accetta l’esito del voto e che ha tentato, a scrutinio in corso, di convincere il Ministro dell’Interno a dichiarare non valide le consultazioni.
Incassata l’indisponibilità del Ministro dell’Interno a partecipare al putsch, il Presidente del Consiglio ha allora manifestato l'intenzione di emanare un decreto con il quale si disponeva la verifica delle schede di circa 60mila sezioni (chissà perché, a quel punto, sessantamila e non tutte), spogliando le Corti d'appello della responsabilità del controllo e la Cassazione della proclamazione dei dati definitivi ed affidando entrambi i compiti di nuovo al Viminale. Come a dire: che gli Interni contino fino a che non escono i numeri che mi servono. In televisione il fatto ci è stato servito come “la necessaria verifica di un risultato elettorale che vede una parte politica prevalere in misura assai risicata”. Il Presidente della Repubblica (Santo subito!) ha frenato questo tentativo, dichiarandosi indisponibile nella maniera più assoluta a controfirmare un siffatto provvedimento.
Ora, mi dico: sono queste le sensazioni che hanno avuto i nostri nonni prima di quella cosa da operetta che fu la marcia su Roma? Tutti hanno continuato ad andare a lavorare tranquilli? Nei caffè, sulle piazze, nei sagrati alla domenica mattina nessuno si diceva preoccupato? Stamattina, tutto regolare: poco traffico per le incipienti vacanze pasquali, i caffè comunque pieni, le canzoni alla radio, la solita giornata.
Questo mi colpisce: il nostro sentirci legittimamente esclusi, perché siamo una variabile il cui comportamento è perfettamente previsto e gestito. In piena campagna elettorale, il Presidente del Consiglio ha dichiarato “Se va a votare l’84% degli Italiani, vinco”. Siamo andati a votare in 83,6 su 100 e ci è mancato effettivamente un pizzico alla riconferma della maggioranza uscente.
Siamo soggetti passivi sia quando votiamo, sia, addirittura, quando qualcuno tenta di rompere le regole della democrazia. Un grande italiano, Giorgio Gaber, in un lungo monologo sulle proprie idiosincrasie, sui propri piccoli e grandi dolori quotidiani, diceva: “Mi fa male quando mi portano il certificato elettorale”. Nei momenti di grande sconforto, penso non sbagliasse.

Comunque, oggi, salendo le scale mobili, nell’atrio della stazione Termini, la grande installazione rotante mi ha accolto con il sorriso di Sharon Stone.

martedì, aprile 11, 2006

Exit-balls

Come quando, durante l'eiezione,
si rompe il tronco e rimani a metà.

Non è semplicemente delusione.

mercoledì, aprile 05, 2006

Coleus sum

Da ieri, più o meno verso ora di pranzo, per formale decreto del Presidente del Consiglio, sono ufficialmente un coglione. È quasi paradossale, ma la cosa mi dà anche un po’ di blanda soddisfazione. Sarà che essendo noi coglioni conclamati in numero elevato (pari a circa metà degl’italiani), magari ci sentiamo finalmente un po’ meno soli. O, forse, a donarmi un’illogica allegria è il pensiero che, come un luciferino contrappasso, sarà proprio un esercito di coglioni a liberare l’Italia domenica prossima.
Fin qui il buonumore superficiale.
Poi, lasciata decantare la posa, quel che resta è un saporaccio in bocca, perché, se è vero che quel che immediatamente colpisce è la totale ignoranza persino dell’abc democratico, nessuno sembra essersi accorto della gravità della seconda parte della frase che ha illuminato la performance del Cavaliere in Confcommercio. Già, perché quel che ha in lui destato profonda indignazione è il fatto che il corpo elettorale sembra non volersi piegare ai risultati delle ricerche di mercato, ma, incomprensibilmente, scelga di “votare per il proprio disinteresse”. Penso sia sinceramente stupito di quanto gli elettori possano essere clienti bizzosi, incontentabili, volubili come vecchie nobildonne capricciose. Sembra dire loro “Ehi, ragazzi, io ho fatto fare ricerche di mercato serie, queste sono le cose che voi mi avete detto di volere. Ed ora che fate? Non comprate?”
Per anni ce la siamo menata con la morte delle ideologie un po’ come si parla del buco dell’ozono o dell’aumento della temperatura del pianeta: catastrofi dei cui effetti nessuno direttamente s’accorge. E, invece, eccolo qua l’effetto tangibile, sensibile: il Presidente del Consiglio italiano non riesce più a concepire che vi siano cittadini che scelgono chi votare nonostante trenta euro in più sul conto corrente. Non è più nel novero delle cose comprensibili rifiutare una formale diminuzione di tasse semplicemente perché si è convinti che allo stato debbano essere date le risorse per continuare ad offrire servizi pubblici di cui magari non si gode direttamente, ma che si ritiene corretto siano a carico della fiscalità generale. È per lui la negazione di un postulato: la razionalità del consumatore. Qualcosa di simile a negare che di fronte a due mele uguali, si compra quella che costa meno.
L’abbrutimento culturale di cui il berlusconismo è stato artefice in questi anni è quello che ha portato e porta il voto delle fasce più deboli a colui che rimprovera alla parte avversa di voler “far sì che il figlio dell’operaio e quello dell’avvocato siano uguali”.
Fermo restando che si dovrebbe ringraziare il Cavaliere per avere finalmente risolto l’annoso problema di quale sia l’identità della sinistra dopo il crollo del muro di Berlino con una di quelle efficacissime sintesi di cui è indubitabilmente capace, trovo assurdo che nessuno (non uno tra politici alleati ed avversari, politologi, sociologi, notisti politici, giornalisti, conduttori, attori impegnati e non, soubrette coscialunga e non) abbia sottolineato la spudorata antidemocraticità e l'assoluta incostituzionalità di tale affermazione. Non uno che si sia vergognato che una tale concezione medievale di una società divisa in caste sia stata propalata dal capo dell’esecutivo italiano.
Il duro film di Moretti, il Caimano, che ho visto e che consiglio solo ai coraggiosi, a quelli che non hanno vergogna e paura di vedere quel che siamo diventati, riesce a raccontare proprio questo: siamo assuefatti a tutto. Non è un film contro Berlusconi, della cui biografia si narra rifacendosi soltanto ad episodi noti e documentati, è un film contro l’Italia, questa Italia atrofizzata, in piena necrosi cerebrale, incapace di capire cosa sia già ormai irrimediabilmente accaduto, un’Italia di furbi scemi, un’Italia che gioca il gioco della sedia convinta che non toccherà mai a lei di rimanere in piedi.
Un’Italia di coglioni, appunto.