Una delle frasi che sentiamo più spesso dire è: “Il confine tra pazzia e normalità è davvero sottile”. Però tutti, in fondo, la prendiamo per un esercizio di stile, una riflessione parafilosofica non impegnativa che si può tirare fuori all’occorrenza nel corso di conversazioni più o meno intelligenti. Tra le altre citerei: “Venezia è bellissima, ma non so se ci vivrei”, “Si stava meglio quando si stava peggio”, “Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno” fino ad arrivare alla sublime “Tanto ormai non gliene frega più niente a nessuno”. Ebbene, confesso di avere talvolta la sensazione che questa frase assuma per me un significato reale, vero. Mi capita di avere pensieri strambi e, lucidamente, accorgermene. È una sensazione sgradevole. Per fortuna, immediatamente dopo, mi viene da ridere di me stesso e di quel che penso. Credo sia questo a far sì che io resti ben piantato al di qua di quel confine tanto labile.
Ad esempio, mi accade di pensare, in quello che è senza dubbio un delirio di onnipotenza, che avrei scritto arrangiamenti migliori di quelli delle canzoni che ho sentito all’ultimo Sanremo ed immediatamente dopo accorgermi che le quattro canzoni che sono stato capace di scrivere in dieci anni neanche mi piacciono. Allora mi dico che la verità è in mezzo, che non sono così bravo e nemmeno così scarso. Poi, ci penso ancora un po’ su, mastico e rimastico ed inevitabilmente mi accorgo che non è così. Mi rendo conto che si tratta solo di un’elegante mistificazione con la quale tento di buggerare me stesso. Allora, mi dico, sono contemporaneamente bravo e scarso. È possibile questo? Per fortuna, rido. Anzi, sorrido. Ridere è un po’ dileggiare, non è partecipativo.
Rileggo quello che ho scritto e mi fermo sulla frase “Sono talmente sulla corda e da talmente tanto tempo…”. Non la trovate, perché l’ho cancellata. Essa è rivelatrice di un mio atteggiamento profondamente sbagliato. La vita non dovrebbe essere una guerra e, invece, quelle sono parole di chi è impegnato in una lotta senza quartiere. Allora perché mi è uscita fuori? Innanzitutto le difficoltà ci sono per tutti e per molti altri sono ben peggiori delle mie. Allora perché mi concedo questa retorica da eroe romantico che si batte contro tutto e tutti? Cosa voglio (devo) dimostrare? Che sono un genio incompreso, uno che è in grado di fare qualunque cosa senza sforzo, un unto dal Signore? Ma, soprattutto, contro chi la faccio ‘sta benedetta guerra?
Gira che ti rigira, alla fine, la risposta è una e, questa volta, per fortuna, chiarissima: la faccio contro di me. Sono io il mio peggior nemico. Un momento, però: in realtà, io mi amo profondamente. Sono una persona capace, intelligente, simpatica, brillante, consapevole. Ma sono anche pesante, incapace di accettarmi, arrogante, supponente e chi più ne ha più ne metta.
Nessuno mi ama come mi amo io, nessuno mi odia come mi odio io. Paolo Conte ha scritto una canzone che fa esattamente così. Io non scriverò mai canzoni come quelle di Paolo Conte. È un fatto che posso accettare: i livelli di eccellenza assoluta non possono essere pretesi. Ma allora vale la pena scrivere canzoni? Vengo e mi spiego: non credo che le mie canzoni siano belle perché le scrivo io, forse le mie canzoni non sono neanche belle. Ma allora perché fare tutta questa fatica? Perché inseguire con tutte le mie forze un risultato che, al massimo, appagherà nella migliore delle ipotesi soltanto me stesso? Perché, sin da Adamo ed Eva, siamo irrimediabilmente vocati all'Hybris.
Jacopo Belbo, quando scoprì che non sarebbe mai stato un protagonista (non tanto per mancanza di talento, quanto per mancanza di coraggio), decise di diventare il migliore spettatore possibile, il più arguto, informato, consapevole. Però, anche lui, nel ventre di Abulafia, non ha resistito alla tentazione di farsi demiurgo, massima aspirazione della debole natura umana. Lì nascondeva i suoi tesori. Ma da chi e perché? Scriveva per sé, ormai. Demiurgo sì, ma di un universo privato, personale, imploso. Che bisogno aveva di essere carbonaro contro se stesso?
La creazione non è cosa umana, uno se ne accorge e se ne vergogna. Ecco perché.