"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

martedì, giugno 27, 2006

Nulla pietas in interpretibus

Ieri sera, nonostante la calura e le zanzare, sono andato a dormire contento. Ero d'animo lieto tanto per la schiacciante vittoria del NO nel referendum istituzionale, che ha sancito la definitiva secessione dell’Italia da Berlusconi, quanto per l’affermazione della nostra nazionale di calcio (che, pur essendo materia meno alta e nobile, condivide con la Costituzione la natura di tessuto connettivo che tiene uniti le Alpi e le Aci). Siamo un paese di commissari tecnici ed anche io, in genere, mi cimento nel ruolo con vigore. So bene che nel calcio, come in tutto il resto, sono lecite le opinioni più disparate, ma ho trovato davvero ingenerosi (e talvolta tecnicamente errati) molti giudizi su una nazionale italiana che, secondo me, invece, ieri ha dimostrato molto valore. Non vorrei che il gentile epiteto con cui il nostro selezionatore ha apostrofato i giornalisti due giorni or sono abbia causato a lui ed alla sua squadra una contrarietà della critica a prescindere.
A me questa Italia piace. Io credo che questo sia un Campionato del Mondo di ottimo livello. Sono praticamente scomparse le squadre che giocano con una punta sola (tranne, forse, proprio i nostri avversari di ieri). Nessuno parte sconfitto in partenza (come dimostrano i risultati alterni che si sono avuti in molti gironi) e, nonostante le ovvie differenze di caratura tecnica tra le diverse compagini, non ci sono partite che possano essere vinte senza profondervi il massimo impegno. Soprattutto quest’ultimo aspetto, al termine di una stagione massacrante, rende il Mondiale una competizione molto difficile, in cui le differenze sul campo finiscono per essere sempre più sfumate di quelle sulla carta. È il caso della partita di ieri sera. Ritengo un risultato molto importante (e tutt’altro che scontato) la vittoria contro l’Australia, non solo per come esso è maturato. I canguri non avranno pedigree calcistico, ma sono una squadra molto ben preparata, fisicamente e ancor di più tatticamente, composta da calciatori che giocano titolari in squadre europee importanti. L’affrettata espulsione di Materazzi ha reso poi ancora più agevole per i nostri avversari coprire il campo di più e meglio di quanto non sapessero fare i nostri. L’Italia, però, dimostrando molta personalità, non ha avuto paura nel sapersi inferiore sul piano del dinamismo e dell’applicazione e mai ha trasmesso l’impressione di non possedere il controllo della gara. Poi, un rigore generoso (e benedetto) ci ha regalato il felice epilogo, ma trovo davvero scorretto non sottolineare che, senza i 94 minuti precedenti, esso non avrebbe mai potuto verificarsi. Vedo giocatori che si aiutano molto in campo e questa è una confortante novità per la nostra nazionale (e un grande risultato del lavoro del commissario tecnico). Non ricordo nulla di simile né sotto la gestione di Cesare Maldini, né sotto quella di Giovanni Trapattoni.
In un’atmosfera da crucifige, la considerazione meno astiosa che ieri sentivo fare in televisione è quella secondo la quale il nostro commissario tecnico starebbe rinnegando quanto ha costruito nei passati due anni, per ritornare al caro vecchio italico catenaccio, che tante soddisfazioni ha dato al nostro calcio. Io non nutro alcuna particolare simpatia verso Marcello Lippi. Per ragioni che vanno al di là delle valutazioni tecniche (il suo passato juventino negli anni dell’abuso di farmaci ed il coinvolgimento del figlio nell’inchiesta che riguarda la GEA), non lo ritengo l’uomo adatto a guidare la nazionale di un calcio italiano che si spera finalmente rinnovato. Mi aspetto anzi che alla fine di questi Mondiali, quale che sia il risultato degli azzurri, egli si dimetta, ancor prima d’esser sollevato dall’incarico.
Tutto ciò detto, gli va riconosciuto di aver schierato, prima che infortuni, convalescenze e squalifiche lo costringessero a sostituzioni obbligate, una nazionale tanto offensiva come mai l'Italia è stata in una grande competizione internazionale: abbiamo due ali come terzini (come, a parte noi, ha solo il Brasile), tre centrocampisti (fino al gesto sconsiderato di De Rossi) tutti dai piedi buoni e votati più alla costruzione e agli inserimenti che al contenimento, due prime punte e un fantasista. Parlare di difesa e contropiede mi sembra poco aderente alla realtà.
Ieri, mentre stavo tornando a casa per seguire la partita, ero in macchina ed ascoltavo la radio. Alla notizia dell’esclusione di Totti, ho sentito dare testualmente del “deficiente” al nostro selezionatore. Ho spento la radio, non ritenendo vi potesse essere alcunché di interessante che potesse dirmi chi ha un tal modo di argomentare. Ma anche nel merito della questione, ritengo invece che la scelta di far giocare Del Piero sia stata proprio una difesa di Totti agli occhi del gruppo che, è bene ricordarlo, nei suoi uomini più rappresentativi (Cannavaro su tutti), dopo l’infelice gara con gli statunitensi, ha sottoposto all’allenatore la seguente, non peregrina, considerazione: non ci possiamo permettere il centrocampo a tre, se Totti, a causa delle sue non perfette condizioni fisiche, non può garantire un aiuto alla linea mediana nella fase difensiva. Semmai, il vero autodafè (pur se giustificato dalla circostanza che erano i cechi a dover fare la partita, avendo la vittoria come unico risultato a disposizione) è stato quello che Lippi ha fatto con la formazione schierata nella terza partita del girone, in cui Totti ha sì giocato l’intera gara, ma nel modulo italiano non v’era traccia alcuna del ruolo nel quale egli è unico, insostituibile e, con buona pace di chi continua a non stimarlo, decisivo.
Ieri, invece, Lippi ha chiaramente e con forza ribadito (alla squadra prima ancora che a chi questo Mondiale lo sta solo guardando) che: i) si gioca con tre uomini davanti, anche se questo comporta fare più fatica in mezzo al campo, ii) il punto di riferimento è Totti, pur se tuttora convalescente (e Del Piero è soltanto la sua sbiadita riserva), iii) l’Italia gioca palla a terra per vie centrali, perché ciò su cui si punta sono la tecnica di Pirlo e Totti, la forza in area di Toni e Gilardino e gli inserimenti di Perrotta. È la sua nazionale ed ha tutto il diritto di insistere sulla strada che crede migliore. Tutto ciò che noi meri spettatori degli eventi possiamo chiedergli è di essere deciso e coerente con le proprie convinzioni, perché, come ha tristemente dimostrato Trapattoni, un allenatore indeciso ha comunque perso già prima di cominciare a giocare.
Ero molto fiducioso prima che iniziasse il Mondiale e, dopo la partita di ieri, lo sono ancora di più.

In ogni caso, oggi ho giocato 10 euro sul Ghana.

lunedì, giugno 19, 2006

I giovani fanno l'alba ad Ostia

Non so molto di cinema, anzi direi che ne capisco quasi niente. Una delle poche cose che so di sapere è che amo molto Nanni Moretti. Nonostante la sua poetica sia estremamente autoriferita (la sua persona ed il suo lavoro, dagli esordi in super-8 fino ad Aprile, di fatto coincidono, direttamente o per l’interposta figura del suo alter ego, Michele Apicella), mi identifico in quanto racconta nei suoi film. Questa immedesimazione sfocia poi in una catarsi vera e propria, di fronte alla maniera non mediata con cui Moretti narra e, così, combatte le sue idiosincrasie. È chiaro che, nella vita quotidiana, non sia (per fortuna) neppure pensabile reagire con tanta nettezza e tale intransigenza di fronte allo sciocco e codino conformismo altrui ed a tanto manifesto disprezzo verso le parole ed il linguaggio. Dunque, se mai vi fosse sorto un dubbio, chiarisco che non ho comportamenti asociali e non sono solito andare in giro a schiaffeggiare chi parla e pensa per sentito dire. Però, allo stesso tempo, non posso negare che l’impulso primario sia quello di censurare, anche con vigore, tanta ignoranza e tanta stupidità e che mi fa bene vedere sullo schermo il sedicente intellettuale, che dice d’essersi ritirato a studiare Joyce da vent’anni, disperato perché non sa come è andata a finire la saga di Beautiful.
Ma, al di là di questo, più in generale riconosco a Moretti la capacità di generare in chi guarda i suoi film quello stupore che è l’unico discrimen che la mia pochezza ha saputo individuare come elemento che distingue ciò che è arte da ciò che arte non è. Se Fellini riusciva a far emergere dal subconscio i quasi sogni del dormiveglia, Moretti riesce a dar sostanza all’ineffabile disagio che ci colpisce quando un gesto, una parola, un fatto ci mettono sotto il naso quale distanza siderale ci sia ormai tra le idee e le azioni, tra ciò che è in potenza e ciò che si realizza, tra quel che si dice e quel che si è.
Approfittando di una mezza giornata di libertà, ho donato un briciolo di senso al mio aver negli anni collezionato, a causa di una canina ed ideologica fedeltà di consumatore al gruppo Repubblica-l’Espresso, centinaia di videocassette e di Dvd di film che non ho il tempo di (ri)vedere e mi sono concesso una proiezione privata di Palombella Rossa. Io non so se Moretti abbia ragione nella sua analisi politica del travaglio comunista (che pure in parte condivido), ma lo stupore di cui parlavo prima trova fondamento nella forza con cui egli rappresenta la lacerazione politica, generazionale, individuale e soprattutto linguistica di un intero paese (e non solo della sinistra). Nel film non c’è alcun intento assolutorio o consolatorio (alla Italia-Germania 4-3, per intenderci), ma solo l’impietosa fotografia scattata da chi, utilizzando come rasoio di Occam un’ironia sublimemente feroce, non ha paura di sfrondare il proprio passato ed il proprio presente, politico e personale, da qualsiasi inutile ridondanza ideologica e sa essere, in qualche modo, profetico del futuro. Perché è innegabile che il tempo abbia dato ragione al Moretti del 1989, se oggi usiamo termini il cui significato non ci è più affatto chiaro.
Si dirà che il fatto è fisiologico, perché la realtà cambia e dunque cambiano le parole. Qui, però, siamo in presenza non di un semplice mutamento, ma di un vero e proprio depauperamento. Dietro alla perdita di senso delle nostre parole, c’è lo svilimento dei concetti che sono ad esse sottesi. Le parole che mi innervosisce sentire usare oggi non sono kitsch, cheap, trend negativo o le altre locuzioni infelici con cui la bionda intervistatrice affliggeva Moretti a bordo piscina. Sono parole importanti come democrazia e come libertà. Prendiamo quest’ultima. Nella sua accezione corrente, essa viene ormai intesa come il diritto di non soffrire delle restrizioni di alcuna regola. È questo un concetto quasi sovrapponibile a quello di anarchia, perché la libertà a cui ci si riferisce è sempre e soltanto quella personale ed è assoluta. Di quale impegno sia necessario per essere liberi non si parla più. Di come sia necessario saper essere informati e consapevoli per essere liberi nessuno dice più. Se nel 1972 (in prima serata, di sabato su Raiuno) si cantava che “La libertà è partecipazione”, oggi si teorizzano veri e propri ossimori, quali la libertà di non pagare le tasse o di intraprendere vie non democratiche di lotta politica (laddove domenica prossima venisse respinto dal corpo elettorale il nuovo assetto istituzionale della Repubblica).
Del concetto di democrazia, invece, si dà oggi un’interpretazione meramente quantitativa, intendendo la volontà della maggioranza come una sorta di monade, inscalfibile da qualsiasi altro argomento, sia esso di ordine etico, morale, politico e finanche legale (se è vero come è vero che, non più di un paio d’anni fa, un parlamentare, magari non proprio versato nel diritto, fece via etere circolare la bislacca opinione secondo la quale chi è bagnato dal consenso della maggioranza dei cittadini non dovrebbe poter essere giudicato da membri di un altro potere – quello giudiziario – che non gode della stessa investitura popolare). La democrazia, intesa come uguaglianza di opportunità e di diritti, oggi, non fa più parte del bagaglio comune della nostra società, della nostra eredità indivisa. Stupisce (ma fino ad un certo punto, in realtà) che siano oggi proprio quelli che hanno minori possibilità e meno mezzi a non avere la voglia di affrontare la fatica che l’esercizio della democrazia comporta.
Allora, come mi trovassi di fronte a un venditore che m’illustri le qualità magnifiche di un prodotto ed il suo prezzo irrisorio e mi lodasse per la perspicacia che dimostrerei concludendo l’acquisto, da un po’ di tempo sono estremamente diffidente verso chi usa con tanta facilità parole così importanti per giustificare scelte e veicolare valori che con la libertà e la democrazia non hanno nulla a che vedere.
Per informazioni, chiedere in Iraq.

giovedì, giugno 08, 2006

Pasta al pomodoro e cotoletta

Avevo un rapporto con il pane e nutella davvero vizioso. La spalmavo personalmente, in grande copia, costruendo un triplo sandwich con il pancarrè. Quindi, procedevo a schiacciare il panino lungo il suo perimetro, in maniera tale da far ammassare tutta la crema di cioccolato al centro. Poi mangiavo i bordi del “cassettone” (così lo chiamavo). Restava una grande palla quadrata (d'altronde, se lo spazio è curvo...) di mollica di pancarrè, praticamente intrisa di nutella, che tenevo delicatamente tra il pollice e l’indice della mano destra. La contemplavo, religiosamente in silenzio, per alcuni secondi e ne odoravo il profumo. Poi la facevo sparire tutta intera in bocca. Ricordo come parte fondamentale dell’irrinunciabile piacere di quel rito anche la difficoltà di governare con la lingua l’enorme bolo, masticando a fatica, per ridurre in poltiglia quella stella nana di straordinaria dolcezza.
Questo avveniva a metà del pomeriggio, quando, conclusa la prima delle due partite che di solito facevamo, risalivo a casa di nonna tutto sudato. Partita, merenda, ancora partita. Giocavamo su prati che, ai nostri occhi, erano campi regolamentari, perfettamente delimitati da linee immaginarie che andavano dalla panchina a quell’albero laggiù. Le porte erano le giacche delle nostre tute. Si giocava per ore, le squadre fatte a pari e dispari dai due più forti (che non potevano stare nella stessa squadra), ogni tre corner un rigore e vittoria a chi arriva per primo a dieci. Ancora oggi associo l’odore dell’erba tagliata alla felicità di un campo perfetto e di un pallone che rotola.
Per qualche tempo ho voluto giocare in porta. Mi piaceva parare e ancora di più mi sarebbe piaciuto vedermi volare da palo a palo, come facevano i miei miti di allora: Harald Schumacher (portierone tedesco, con dei baffoni asburgici, che fu in campo nella finale del Bernabeu) e Jean Marie Pfaff (un belga, che aveva sì un nome da macchina da cucire, ma era dotato di uno stile davvero perfetto). Erano entrambi campionissimi, che in carriera hanno soltanto perso. A dire il vero, il portiere più forte di quegli anni era Rinat Dassaev, ma era sovietico e lontano, per cui, di fatto, di lui non si parlava mai, neppure fantasticando. Paravo usando dei guanti da giardiniere, neri con delle strisce di gomma verde puntinata sulle dita, che avevo trovato nella cassetta degli attrezzi di mio nonno. Poi, un giorno, per il mio compleanno, mi feci regalare dei veri guanti da portiere. Grigi, stupendi. E non mi importava affatto di ignorare del tutto chi fosse il portiere a cui erano dedicati (Sepp Maier, che solo anni dopo scoprii essere stato guardiano della nazionale tedesca per ben due mondiali). Poco tempo dopo, tornai a tirar calci in mezzo al campo.
Altre volte, i portici sotto casa ospitavano le prove del nostro Grande Slam di tennis. Un pomeriggio eravamo a Wimbledon, un altro calpestavamo la terra rossa del Roland Garros e così via, in giro per il mondo. Era sufficiente tirare uno spago tra due colonne dei portici. Giocavamo utilizzando racchette di plastica e palline di spugna. Eravamo di solito in quattro e ciascuno di noi sceglieva all’inizio del torneo quale campione avrebbe impersonato. Io amavo Jimmy Connors, che era mancino e maleducato. Talvolta (ma solo se ero avanti nel punteggio), nonostante io sia destro, giocavo dei punti con la sinistra. Quando ero Connors avevo anche facoltà di insultare le mamme dei miei avversari, proprio come faceva Jimbo. Si giocava a turno. I due al momento non impegnati in gara facevano uno il giudice di sedia (con giurisdizione assoluta e sentenze inappellabili) e l’altro la telecronaca (comprensiva degli effetti sonori, tipo schiocco della pallina sulla racchetta, applausi, boati della folla in estasi). Sono state le ore, i giorni, gli anni in cui abbiamo maturato le inclinazioni che abbiamo oggi nel menare la vita. Ricordo che Adriano amava McEnroe e dunque aveva un gioco spumeggiante, tutto d’attacco, fatto di volée, demi-volée, veroniche e smorzate. Scendeva a rete a prescindere, quasi ad onorare la bellezza del gioco e l’armonia dei gesti del suo campione. Che lo impallinassi quasi regolarmente con il mio barbaro passante lungolinea di rovescio (metà Ivan Lendl, metà gattone Mečir) non costituiva per lui un fatto meritevole della benché minima considerazione.
Ci si telefonava, rigorosamente durante il riposino degli adulti, per darsi appuntamento alle tre di pomeriggio, perché le due ore trascorse dall’uscita da scuola erano stimate sufficienti per pranzare (vedendo “Il pranzo è servito” di Corrado) e fare quei quattro compitini che ci assegnavano da svolgere a casa. Ancora meno tempo si impiegava a decidere di non fare neppure quelle poche cose e vedere invece i Duran Duran o Howard Jones a Deejay Television.
Facevamo numeri di sei cifre, senza prefisso, e conversazioni meravigliosamente basiche, tipo questa:
“Pronto, so’ Andrea, che c’è Massimiliano?”
“Un attimo”
(madre scocciata che prefigura la tuta da lavare e/o rammendare)
“Ciao”
“Ciao. Se vedemo a ‘e tre, sotto casa de Petrella”
“Ciao”
“Ciao”


Ora sono in ufficio. C’è il sole e penso che non torneranno più quelle merendine di Maggio.