Pasta al pomodoro e cotoletta
Avevo un rapporto con il pane e nutella davvero vizioso. La spalmavo personalmente, in grande copia, costruendo un triplo sandwich con il pancarrè. Quindi, procedevo a schiacciare il panino lungo il suo perimetro, in maniera tale da far ammassare tutta la crema di cioccolato al centro. Poi mangiavo i bordi del “cassettone” (così lo chiamavo). Restava una grande palla quadrata (d'altronde, se lo spazio è curvo...) di mollica di pancarrè, praticamente intrisa di nutella, che tenevo delicatamente tra il pollice e l’indice della mano destra. La contemplavo, religiosamente in silenzio, per alcuni secondi e ne odoravo il profumo. Poi la facevo sparire tutta intera in bocca. Ricordo come parte fondamentale dell’irrinunciabile piacere di quel rito anche la difficoltà di governare con la lingua l’enorme bolo, masticando a fatica, per ridurre in poltiglia quella stella nana di straordinaria dolcezza.
Questo avveniva a metà del pomeriggio, quando, conclusa la prima delle due partite che di solito facevamo, risalivo a casa di nonna tutto sudato. Partita, merenda, ancora partita. Giocavamo su prati che, ai nostri occhi, erano campi regolamentari, perfettamente delimitati da linee immaginarie che andavano dalla panchina a quell’albero laggiù. Le porte erano le giacche delle nostre tute. Si giocava per ore, le squadre fatte a pari e dispari dai due più forti (che non potevano stare nella stessa squadra), ogni tre corner un rigore e vittoria a chi arriva per primo a dieci. Ancora oggi associo l’odore dell’erba tagliata alla felicità di un campo perfetto e di un pallone che rotola.
Per qualche tempo ho voluto giocare in porta. Mi piaceva parare e ancora di più mi sarebbe piaciuto vedermi volare da palo a palo, come facevano i miei miti di allora: Harald Schumacher (portierone tedesco, con dei baffoni asburgici, che fu in campo nella finale del Bernabeu) e Jean Marie Pfaff (un belga, che aveva sì un nome da macchina da cucire, ma era dotato di uno stile davvero perfetto). Erano entrambi campionissimi, che in carriera hanno soltanto perso. A dire il vero, il portiere più forte di quegli anni era Rinat Dassaev, ma era sovietico e lontano, per cui, di fatto, di lui non si parlava mai, neppure fantasticando. Paravo usando dei guanti da giardiniere, neri con delle strisce di gomma verde puntinata sulle dita, che avevo trovato nella cassetta degli attrezzi di mio nonno. Poi, un giorno, per il mio compleanno, mi feci regalare dei veri guanti da portiere. Grigi, stupendi. E non mi importava affatto di ignorare del tutto chi fosse il portiere a cui erano dedicati (Sepp Maier, che solo anni dopo scoprii essere stato guardiano della nazionale tedesca per ben due mondiali). Poco tempo dopo, tornai a tirar calci in mezzo al campo.
Altre volte, i portici sotto casa ospitavano le prove del nostro Grande Slam di tennis. Un pomeriggio eravamo a Wimbledon, un altro calpestavamo la terra rossa del Roland Garros e così via, in giro per il mondo. Era sufficiente tirare uno spago tra due colonne dei portici. Giocavamo utilizzando racchette di plastica e palline di spugna. Eravamo di solito in quattro e ciascuno di noi sceglieva all’inizio del torneo quale campione avrebbe impersonato. Io amavo Jimmy Connors, che era mancino e maleducato. Talvolta (ma solo se ero avanti nel punteggio), nonostante io sia destro, giocavo dei punti con la sinistra. Quando ero Connors avevo anche facoltà di insultare le mamme dei miei avversari, proprio come faceva Jimbo. Si giocava a turno. I due al momento non impegnati in gara facevano uno il giudice di sedia (con giurisdizione assoluta e sentenze inappellabili) e l’altro la telecronaca (comprensiva degli effetti sonori, tipo schiocco della pallina sulla racchetta, applausi, boati della folla in estasi). Sono state le ore, i giorni, gli anni in cui abbiamo maturato le inclinazioni che abbiamo oggi nel menare la vita. Ricordo che Adriano amava McEnroe e dunque aveva un gioco spumeggiante, tutto d’attacco, fatto di volée, demi-volée, veroniche e smorzate. Scendeva a rete a prescindere, quasi ad onorare la bellezza del gioco e l’armonia dei gesti del suo campione. Che lo impallinassi quasi regolarmente con il mio barbaro passante lungolinea di rovescio (metà Ivan Lendl, metà gattone Mečir) non costituiva per lui un fatto meritevole della benché minima considerazione.
Ci si telefonava, rigorosamente durante il riposino degli adulti, per darsi appuntamento alle tre di pomeriggio, perché le due ore trascorse dall’uscita da scuola erano stimate sufficienti per pranzare (vedendo “Il pranzo è servito” di Corrado) e fare quei quattro compitini che ci assegnavano da svolgere a casa. Ancora meno tempo si impiegava a decidere di non fare neppure quelle poche cose e vedere invece i Duran Duran o Howard Jones a Deejay Television.
Facevamo numeri di sei cifre, senza prefisso, e conversazioni meravigliosamente basiche, tipo questa:
“Pronto, so’ Andrea, che c’è Massimiliano?”
“Un attimo” (madre scocciata che prefigura la tuta da lavare e/o rammendare)
“Ciao”
“Ciao. Se vedemo a ‘e tre, sotto casa de Petrella”
“Ciao”
“Ciao”
Ora sono in ufficio. C’è il sole e penso che non torneranno più quelle merendine di Maggio.
Questo avveniva a metà del pomeriggio, quando, conclusa la prima delle due partite che di solito facevamo, risalivo a casa di nonna tutto sudato. Partita, merenda, ancora partita. Giocavamo su prati che, ai nostri occhi, erano campi regolamentari, perfettamente delimitati da linee immaginarie che andavano dalla panchina a quell’albero laggiù. Le porte erano le giacche delle nostre tute. Si giocava per ore, le squadre fatte a pari e dispari dai due più forti (che non potevano stare nella stessa squadra), ogni tre corner un rigore e vittoria a chi arriva per primo a dieci. Ancora oggi associo l’odore dell’erba tagliata alla felicità di un campo perfetto e di un pallone che rotola.
Per qualche tempo ho voluto giocare in porta. Mi piaceva parare e ancora di più mi sarebbe piaciuto vedermi volare da palo a palo, come facevano i miei miti di allora: Harald Schumacher (portierone tedesco, con dei baffoni asburgici, che fu in campo nella finale del Bernabeu) e Jean Marie Pfaff (un belga, che aveva sì un nome da macchina da cucire, ma era dotato di uno stile davvero perfetto). Erano entrambi campionissimi, che in carriera hanno soltanto perso. A dire il vero, il portiere più forte di quegli anni era Rinat Dassaev, ma era sovietico e lontano, per cui, di fatto, di lui non si parlava mai, neppure fantasticando. Paravo usando dei guanti da giardiniere, neri con delle strisce di gomma verde puntinata sulle dita, che avevo trovato nella cassetta degli attrezzi di mio nonno. Poi, un giorno, per il mio compleanno, mi feci regalare dei veri guanti da portiere. Grigi, stupendi. E non mi importava affatto di ignorare del tutto chi fosse il portiere a cui erano dedicati (Sepp Maier, che solo anni dopo scoprii essere stato guardiano della nazionale tedesca per ben due mondiali). Poco tempo dopo, tornai a tirar calci in mezzo al campo.
Altre volte, i portici sotto casa ospitavano le prove del nostro Grande Slam di tennis. Un pomeriggio eravamo a Wimbledon, un altro calpestavamo la terra rossa del Roland Garros e così via, in giro per il mondo. Era sufficiente tirare uno spago tra due colonne dei portici. Giocavamo utilizzando racchette di plastica e palline di spugna. Eravamo di solito in quattro e ciascuno di noi sceglieva all’inizio del torneo quale campione avrebbe impersonato. Io amavo Jimmy Connors, che era mancino e maleducato. Talvolta (ma solo se ero avanti nel punteggio), nonostante io sia destro, giocavo dei punti con la sinistra. Quando ero Connors avevo anche facoltà di insultare le mamme dei miei avversari, proprio come faceva Jimbo. Si giocava a turno. I due al momento non impegnati in gara facevano uno il giudice di sedia (con giurisdizione assoluta e sentenze inappellabili) e l’altro la telecronaca (comprensiva degli effetti sonori, tipo schiocco della pallina sulla racchetta, applausi, boati della folla in estasi). Sono state le ore, i giorni, gli anni in cui abbiamo maturato le inclinazioni che abbiamo oggi nel menare la vita. Ricordo che Adriano amava McEnroe e dunque aveva un gioco spumeggiante, tutto d’attacco, fatto di volée, demi-volée, veroniche e smorzate. Scendeva a rete a prescindere, quasi ad onorare la bellezza del gioco e l’armonia dei gesti del suo campione. Che lo impallinassi quasi regolarmente con il mio barbaro passante lungolinea di rovescio (metà Ivan Lendl, metà gattone Mečir) non costituiva per lui un fatto meritevole della benché minima considerazione.
Ci si telefonava, rigorosamente durante il riposino degli adulti, per darsi appuntamento alle tre di pomeriggio, perché le due ore trascorse dall’uscita da scuola erano stimate sufficienti per pranzare (vedendo “Il pranzo è servito” di Corrado) e fare quei quattro compitini che ci assegnavano da svolgere a casa. Ancora meno tempo si impiegava a decidere di non fare neppure quelle poche cose e vedere invece i Duran Duran o Howard Jones a Deejay Television.
Facevamo numeri di sei cifre, senza prefisso, e conversazioni meravigliosamente basiche, tipo questa:
“Pronto, so’ Andrea, che c’è Massimiliano?”
“Un attimo” (madre scocciata che prefigura la tuta da lavare e/o rammendare)
“Ciao”
“Ciao. Se vedemo a ‘e tre, sotto casa de Petrella”
“Ciao”
“Ciao”
Ora sono in ufficio. C’è il sole e penso che non torneranno più quelle merendine di Maggio.
4 Comments:
Mi hai, anzi, ci hai passato da parte a parte.
Complimenti.
HR, Stronzi in prima linea
08 giugno, 2006 12:01
Un bel ricordo... con forse meno fantasia anch'io penso con piacere al periodo prima della fine della scuola, passato ai giardinetti sotto casa.
L'inizio del periodo più bello dell'anno di quando ero studente: le vacanze!!! :-)
Jimmy Connors era anche il mio preferito :-)
CIAO
LaVale
08 giugno, 2006 13:34
anche se non torneranno l'importante è averli vissuti quei maggi assolati, fatti di nutella, amici e sport...... ricordi che sono tuoi e nessuno ti toglierà mai.....una ricchezza. la nutella la mangiavo anch'io così, ma col pane casareccio, quando ero bambina io il pancarrè non usava, ma il gusto, quello, era identico
08 giugno, 2006 18:40
ti sei dimenticato delle partite a pali a piazza jan palach o della tedesca sotto i portici. e anche che c'era una bambinetta che rompeva sempre perchè voleva giocare a pallone proprio come te. in ogni caso, magistrale.
bacio
la bambinetta
13 giugno, 2006 18:37
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