I giovani fanno l'alba ad Ostia
Non so molto di cinema, anzi direi che ne capisco quasi niente. Una delle poche cose che so di sapere è che amo molto Nanni Moretti. Nonostante la sua poetica sia estremamente autoriferita (la sua persona ed il suo lavoro, dagli esordi in super-8 fino ad Aprile, di fatto coincidono, direttamente o per l’interposta figura del suo alter ego, Michele Apicella), mi identifico in quanto racconta nei suoi film. Questa immedesimazione sfocia poi in una catarsi vera e propria, di fronte alla maniera non mediata con cui Moretti narra e, così, combatte le sue idiosincrasie. È chiaro che, nella vita quotidiana, non sia (per fortuna) neppure pensabile reagire con tanta nettezza e tale intransigenza di fronte allo sciocco e codino conformismo altrui ed a tanto manifesto disprezzo verso le parole ed il linguaggio. Dunque, se mai vi fosse sorto un dubbio, chiarisco che non ho comportamenti asociali e non sono solito andare in giro a schiaffeggiare chi parla e pensa per sentito dire. Però, allo stesso tempo, non posso negare che l’impulso primario sia quello di censurare, anche con vigore, tanta ignoranza e tanta stupidità e che mi fa bene vedere sullo schermo il sedicente intellettuale, che dice d’essersi ritirato a studiare Joyce da vent’anni, disperato perché non sa come è andata a finire la saga di Beautiful.
Ma, al di là di questo, più in generale riconosco a Moretti la capacità di generare in chi guarda i suoi film quello stupore che è l’unico discrimen che la mia pochezza ha saputo individuare come elemento che distingue ciò che è arte da ciò che arte non è. Se Fellini riusciva a far emergere dal subconscio i quasi sogni del dormiveglia, Moretti riesce a dar sostanza all’ineffabile disagio che ci colpisce quando un gesto, una parola, un fatto ci mettono sotto il naso quale distanza siderale ci sia ormai tra le idee e le azioni, tra ciò che è in potenza e ciò che si realizza, tra quel che si dice e quel che si è.
Approfittando di una mezza giornata di libertà, ho donato un briciolo di senso al mio aver negli anni collezionato, a causa di una canina ed ideologica fedeltà di consumatore al gruppo Repubblica-l’Espresso, centinaia di videocassette e di Dvd di film che non ho il tempo di (ri)vedere e mi sono concesso una proiezione privata di Palombella Rossa. Io non so se Moretti abbia ragione nella sua analisi politica del travaglio comunista (che pure in parte condivido), ma lo stupore di cui parlavo prima trova fondamento nella forza con cui egli rappresenta la lacerazione politica, generazionale, individuale e soprattutto linguistica di un intero paese (e non solo della sinistra). Nel film non c’è alcun intento assolutorio o consolatorio (alla Italia-Germania 4-3, per intenderci), ma solo l’impietosa fotografia scattata da chi, utilizzando come rasoio di Occam un’ironia sublimemente feroce, non ha paura di sfrondare il proprio passato ed il proprio presente, politico e personale, da qualsiasi inutile ridondanza ideologica e sa essere, in qualche modo, profetico del futuro. Perché è innegabile che il tempo abbia dato ragione al Moretti del 1989, se oggi usiamo termini il cui significato non ci è più affatto chiaro.
Si dirà che il fatto è fisiologico, perché la realtà cambia e dunque cambiano le parole. Qui, però, siamo in presenza non di un semplice mutamento, ma di un vero e proprio depauperamento. Dietro alla perdita di senso delle nostre parole, c’è lo svilimento dei concetti che sono ad esse sottesi. Le parole che mi innervosisce sentire usare oggi non sono kitsch, cheap, trend negativo o le altre locuzioni infelici con cui la bionda intervistatrice affliggeva Moretti a bordo piscina. Sono parole importanti come democrazia e come libertà. Prendiamo quest’ultima. Nella sua accezione corrente, essa viene ormai intesa come il diritto di non soffrire delle restrizioni di alcuna regola. È questo un concetto quasi sovrapponibile a quello di anarchia, perché la libertà a cui ci si riferisce è sempre e soltanto quella personale ed è assoluta. Di quale impegno sia necessario per essere liberi non si parla più. Di come sia necessario saper essere informati e consapevoli per essere liberi nessuno dice più. Se nel 1972 (in prima serata, di sabato su Raiuno) si cantava che “La libertà è partecipazione”, oggi si teorizzano veri e propri ossimori, quali la libertà di non pagare le tasse o di intraprendere vie non democratiche di lotta politica (laddove domenica prossima venisse respinto dal corpo elettorale il nuovo assetto istituzionale della Repubblica).
Del concetto di democrazia, invece, si dà oggi un’interpretazione meramente quantitativa, intendendo la volontà della maggioranza come una sorta di monade, inscalfibile da qualsiasi altro argomento, sia esso di ordine etico, morale, politico e finanche legale (se è vero come è vero che, non più di un paio d’anni fa, un parlamentare, magari non proprio versato nel diritto, fece via etere circolare la bislacca opinione secondo la quale chi è bagnato dal consenso della maggioranza dei cittadini non dovrebbe poter essere giudicato da membri di un altro potere – quello giudiziario – che non gode della stessa investitura popolare). La democrazia, intesa come uguaglianza di opportunità e di diritti, oggi, non fa più parte del bagaglio comune della nostra società, della nostra eredità indivisa. Stupisce (ma fino ad un certo punto, in realtà) che siano oggi proprio quelli che hanno minori possibilità e meno mezzi a non avere la voglia di affrontare la fatica che l’esercizio della democrazia comporta.
Allora, come mi trovassi di fronte a un venditore che m’illustri le qualità magnifiche di un prodotto ed il suo prezzo irrisorio e mi lodasse per la perspicacia che dimostrerei concludendo l’acquisto, da un po’ di tempo sono estremamente diffidente verso chi usa con tanta facilità parole così importanti per giustificare scelte e veicolare valori che con la libertà e la democrazia non hanno nulla a che vedere.
Per informazioni, chiedere in Iraq.
Ma, al di là di questo, più in generale riconosco a Moretti la capacità di generare in chi guarda i suoi film quello stupore che è l’unico discrimen che la mia pochezza ha saputo individuare come elemento che distingue ciò che è arte da ciò che arte non è. Se Fellini riusciva a far emergere dal subconscio i quasi sogni del dormiveglia, Moretti riesce a dar sostanza all’ineffabile disagio che ci colpisce quando un gesto, una parola, un fatto ci mettono sotto il naso quale distanza siderale ci sia ormai tra le idee e le azioni, tra ciò che è in potenza e ciò che si realizza, tra quel che si dice e quel che si è.
Approfittando di una mezza giornata di libertà, ho donato un briciolo di senso al mio aver negli anni collezionato, a causa di una canina ed ideologica fedeltà di consumatore al gruppo Repubblica-l’Espresso, centinaia di videocassette e di Dvd di film che non ho il tempo di (ri)vedere e mi sono concesso una proiezione privata di Palombella Rossa. Io non so se Moretti abbia ragione nella sua analisi politica del travaglio comunista (che pure in parte condivido), ma lo stupore di cui parlavo prima trova fondamento nella forza con cui egli rappresenta la lacerazione politica, generazionale, individuale e soprattutto linguistica di un intero paese (e non solo della sinistra). Nel film non c’è alcun intento assolutorio o consolatorio (alla Italia-Germania 4-3, per intenderci), ma solo l’impietosa fotografia scattata da chi, utilizzando come rasoio di Occam un’ironia sublimemente feroce, non ha paura di sfrondare il proprio passato ed il proprio presente, politico e personale, da qualsiasi inutile ridondanza ideologica e sa essere, in qualche modo, profetico del futuro. Perché è innegabile che il tempo abbia dato ragione al Moretti del 1989, se oggi usiamo termini il cui significato non ci è più affatto chiaro.
Si dirà che il fatto è fisiologico, perché la realtà cambia e dunque cambiano le parole. Qui, però, siamo in presenza non di un semplice mutamento, ma di un vero e proprio depauperamento. Dietro alla perdita di senso delle nostre parole, c’è lo svilimento dei concetti che sono ad esse sottesi. Le parole che mi innervosisce sentire usare oggi non sono kitsch, cheap, trend negativo o le altre locuzioni infelici con cui la bionda intervistatrice affliggeva Moretti a bordo piscina. Sono parole importanti come democrazia e come libertà. Prendiamo quest’ultima. Nella sua accezione corrente, essa viene ormai intesa come il diritto di non soffrire delle restrizioni di alcuna regola. È questo un concetto quasi sovrapponibile a quello di anarchia, perché la libertà a cui ci si riferisce è sempre e soltanto quella personale ed è assoluta. Di quale impegno sia necessario per essere liberi non si parla più. Di come sia necessario saper essere informati e consapevoli per essere liberi nessuno dice più. Se nel 1972 (in prima serata, di sabato su Raiuno) si cantava che “La libertà è partecipazione”, oggi si teorizzano veri e propri ossimori, quali la libertà di non pagare le tasse o di intraprendere vie non democratiche di lotta politica (laddove domenica prossima venisse respinto dal corpo elettorale il nuovo assetto istituzionale della Repubblica).
Del concetto di democrazia, invece, si dà oggi un’interpretazione meramente quantitativa, intendendo la volontà della maggioranza come una sorta di monade, inscalfibile da qualsiasi altro argomento, sia esso di ordine etico, morale, politico e finanche legale (se è vero come è vero che, non più di un paio d’anni fa, un parlamentare, magari non proprio versato nel diritto, fece via etere circolare la bislacca opinione secondo la quale chi è bagnato dal consenso della maggioranza dei cittadini non dovrebbe poter essere giudicato da membri di un altro potere – quello giudiziario – che non gode della stessa investitura popolare). La democrazia, intesa come uguaglianza di opportunità e di diritti, oggi, non fa più parte del bagaglio comune della nostra società, della nostra eredità indivisa. Stupisce (ma fino ad un certo punto, in realtà) che siano oggi proprio quelli che hanno minori possibilità e meno mezzi a non avere la voglia di affrontare la fatica che l’esercizio della democrazia comporta.
Allora, come mi trovassi di fronte a un venditore che m’illustri le qualità magnifiche di un prodotto ed il suo prezzo irrisorio e mi lodasse per la perspicacia che dimostrerei concludendo l’acquisto, da un po’ di tempo sono estremamente diffidente verso chi usa con tanta facilità parole così importanti per giustificare scelte e veicolare valori che con la libertà e la democrazia non hanno nulla a che vedere.
Per informazioni, chiedere in Iraq.
2 Comments:
libertà è seguire le regole del rispetto altrui, non sconfinare, non sgomitare.....questa è prevaricazione, arroganza.....essere liberi è un percorso difficile, perchè occorre saper pensare, decidere, scegliere..... ed in questo mondo istupidito da tutto, tutto ciò diventa sempre più difficile. Per me la democrazia è legata alla libertà così come io la intendo, ergo, non vedo democrazia in giro, ma una squallida parodia della stessa
19 giugno, 2006 23:49
A parte il fatto che approfondirò il concetto di monade, posso dirti che mi trovo d'accordo con il tuo post... ho voglia però di poter credere che qualcosa possa cambiare, e si torni a partecipare.
Io almeno ci provo.
CIAO!
20 giugno, 2006 09:34
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