"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

venerdì, gennaio 26, 2007

Là, dove nacque Venere

Viaggio spesso per lavoro. Mi piace, malgrado la fatica e nonostante si abbiano davvero poche occasioni (e, alla fine di giornate lunghissime, anche poca voglia) di fare un po’ di turismo. Ma, ogni tanto, quando il tempo lo consente, capita di godere di momenti molto piacevoli. È stato il caso di questa settimana, a Cipro. Questo inverno, caldo come un’estate morente, è in quest’isola, dirimpettaia del Libano, addirittura abbagliante. Ora l’Europa ha davvero il suo medioriente: case bianche, piccole e quadrate si alternano a palazzi moderni, alti, con ampie finestre; le strade, spesso ancora sterrate, sono spazzate da un vento che fa sempre sentire la sua presenza. Di fronte al mare, lunghe file di palme centenarie. E poi frutta (dolce e saporita, come qui non abbiamo più) e ulivo e vite e grano. È ancora Grecia, ma è già anche Siria.
Ho passato una sera piacevolissima per i vicoli di Nicosia vecchia. Come spesso accade in queste occasioni, i miei ospiti, con l’orgoglio di chi ama la propria terra, si prodigano per far sì che io possa gustare la migliore cucina tradizionale e faccia quattro passi in mezzo alla loro storia (“Lì, dal balcone di quella chiesa, hanno impiccato otto dei nostri. Ero bambino, ma me lo ricordo perfettamente”).
Terminata, dunque, una splendida cena cipriota (ricca, profumata, abbondante), vista la sera fresca, si è optato per quattro passi digestivi, distensivi, discorsivi. Oggetto di disimpegnata conversazione, ovviamente, il lavoro: impressioni sugli incontri avuti in giornata e sulle reazioni dei nostri interlocutori. Routine, insomma. Poi, svoltato un angolo, mi si para d’innanzi un muro di cemento armato, alto, massiccio, sul cui culmine è una lunga teoria di filo spinato ed avverto forte la sensazione che la città finisca esattamente lì, in quel punto. Allora, faccio al mio accompagnatore: “Is it a border?” e lui: “No, it’s a fireline. The Turks are over there”. Scuro, molto, in volto.
La parte settentrionale di Cipro è sotto il controllo dei Turchi, i quali l’invasero nel 1974. L’occasione fu il colpo di stato che depose il presidente cipriota Makarios. Si dice che dietro al putsch ci fosse il regime greco dei colonnelli, che, tramite l’instaurazione di un governo fantoccio, intendesse così procedere all’annessione di Cipro alla Grecia. Cinque giorni dopo il golpe, le truppe di Istanbul occuparono la parte nord dell’isola, con l’intento di proteggere la minoranza cipriota di origine turca. Circa 180.000 greco-ciprioti furono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Gli americani (le cui responsabilità nell’affermarsi della dittatura in Grecia sono storicamente acclarate) e soprattutto gli inglesi (Cipro è stata colonia britannica fino al 1959) hanno visto con favore l’insorgere di questa situazione di tensione nell’isola, al fine di mantenere più facilmente una loro forte influenza su una regione ritenuta cruciale per la sua posizione strategica. Ancora oggi, infatti, gli inglesi hanno due basi militari nella parte greca, mentre gli americani ne hanno una nella zona turca (da cui sono partiti recentemente i caccia per le operazioni in Iraq). Racconto tutto questo, perché un conto è sapere le cose nella testa, un altro è sentirle nella pancia.
In quello scorcio di Nicosia – che ho visto in una sera d’inverno tanto dolce da sembrare estate – erano condensati il colonialismo, la strategia della tensione, l’odio interetnico, l’insensatezza della guerra, il dramma dei profughi, l’impotenza del peace-keeping, i 29 mesi di servizio militare che ancora oggi toccano ai giovani ciprioti greci, le armi in ogni casa, la sensazione di spreco, di dissipazione che trasmette toccare con mano quanto poco tempo e quanto poco sforzo ci vogliano a distruggere quanto si è costruito in secoli di convivenza.
E ancora maggiore è il senso di frustrazione che si prova nel vedere che gli effetti nefasti di tutto questo sono simili a scorie nucleari: hanno un tempo di decadimento lungo, lunghissimo, durante il quale, per loro causa, ci si ammala e si muore.

venerdì, gennaio 12, 2007

Pacs nobiscum

Il tema della revisione del concetto di famiglia (banalizzato nella sotto-sottocategoria dei PACS) è davvero difficile, soprattutto per i “rumori (neanche tanto) di fondo” che coprono le voci di chiunque tenti di articolare un proprio ragionamento in materia senza adottare la modalità “scontro ideologico”. Parto da un punto per me irrinunciabile: la finalità di un’eventuale riforma dev’essere quella di rimuovere le differenze di tutela che allo stato esistono tra cittadini che in teoria dovrebbero poter godere degli stessi diritti.
Mi piacerebbe, pertanto, che il discorso venisse affrontato a questo livello, tralasciando le considerazioni di carattere etico sull’eventuale superiorità di una modalità di famiglia rispetto ad un’altra, che impediscono un confronto utile sul vero oggetto della contesa. E devo dire che va riconosciuto proprio a Benedetto XVI di aver contribuito non poco a riportare la discussione nei termini che ho poc’anzi auspicato, con l’ultimo suo attacco ai PACS.
Riporto, citandole puntualmente per amore di verità e comodità nella discussione, le dichiarazioni di ieri del Papa: «… È necessaria una politica della famiglia e per la famiglia. Si tratta di incrementare le iniziative che possono rendere meno difficile e gravosa per le giovani coppie la formazione di una famiglia, e poi la generazione e l'educazione dei figli, favorendo l'occupazione giovanile, contenendo per quanto possibile il costo degli alloggi, aumentando il numero delle scuole materne e degli asili-nido. […] Appaiono pericolosi e controproducenti quei progetti che puntano ad attribuire ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, finendo inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima fondata sul matrimonio».
Qualche problema di comunicazione il Santo Padre ce l’ha, perché ieri alla radio, mentre tornavo verso casa, ho ascoltato un laicissimo ex-direttore di quotidiano – che conosco per uomo colto ed onesto intellettualmente – sostenere con inviperite parole che neppure l’autorità morale di capo della Chiesa cattolica poteva conferire a Ratzinger il diritto di definire pericolose le coppie di fatto. Appare evidente, invece, che per il successore di Pietro non di problema morale si tratta, ma di utilizzo di risorse. Le politiche a sostegno della famiglia, quali quelle che auspica il Papa, ovviamente costano. La preoccupazione manifestata dalla Santa Sede (espressa con quegli aggettivi “pericoloso e controproducente” che tanto scalpore hanno destato) non è affatto quella che l’introduzione dei PACS mini da un punto di vista morale l’istituzione del matrimonio, bensì che l’estensione delle tutele a forme di famiglia diverse finisca per sottrarre risorse alle famiglie che si fondano sul matrimonio.
La Chiesa pretende, in sintesi, che debba permanere ben saldo il principio secondo il quale il diritto alla pensione di reversibilità o alla casa, ad esempio, devono essere appannaggio esclusivo delle giovani coppie che contraggono matrimonio, le uniche che per la morale cattolica debbano essere aiutate. D’altronde, il Papa si limita a chiedere che venga rispettata la stessa Costituzione italiana, la quale prevede che oggetto delle politiche di sostegno sia la famiglia (ed ecco perché il gran canaio su cosa sia famiglia vera e cosa sia famiglia deviata) e che si ha famiglia solo quando c’è matrimonio. Con le scorciatoie tipiche dei nostri tempi, allora, si è parlato (e fatto) di matrimoni gay, verso cui la Chiesa ha tutto il diritto di levare i propri possenti scudi. Il matrimonio, antropologicamente prima ancora che religiosamente, è l’unione di un uomo e una donna.
E allora? La soluzione, a mio modesto modo di vedere la cosa, è rompere anche nella Costituzione (visto che nella società già è così da anni) la corrispondenza biunivoca tra matrimonio e famiglia. Io farei addirittura un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare con cui aggiornare l’articolo 29, scrivendo “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e sulle altre forme di unione civile previste dalla legge”. Mi piacerebbe che l’iniziativa fosse popolare, perché una Costituzione descrive il patto della società che essa governa e le unioni di fatto (senza specificarne sesso e direzioni) superano già oggi di gran lunga per numero quelle matrimoniali. Questo non significa che l’istituto morale del matrimonio è in crisi. Significa piuttosto che l’istituto civile (le norme che regolano la convivenza tra due persone) non è più in grado di soddisfare le esigenze di due cittadini che scelgono di passare insieme un pezzo o tutta la propria vita. L’unica articolazione del “patto” tra due cittadini che vogliono costituire una famiglia è oggi la scelta tra comunione e separazione dei beni.
Tutto il dibattito sui PACS nasce non solo dall’esigenza, per me comunque insopprimibile, di dare reale sostanza all’uguaglianza formale dei diritti a tutti i cittadini (a prescindere dalle loro scelte sessuali ed affettive), ma anche dalla domanda (che viene soprattutto degli eterosessuali) di una declinazione del concetto di famiglia meno rigido di quello descritto dal matrimonio civile.
Tutto questo detto, ricordo sempre che all’articolo 7 la nostra Costituzione dice che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.”
In cambio di questa separazione, di questa rinuncia ad interferire negli affari politici dello Stato italiano (e la definizione dei rapporti giuridici tra cittadini che scelgono di vivere insieme rientra sicuramente nella categoria), versiamo allo Stato Città del Vaticano il tanto noto ottopermille.
Mi farebbe piacere una maggiore continenza papale.

martedì, gennaio 02, 2007

Video amatoriali

È stupido, lo so. Ma mi arrabbio. Mi urta vedere quanto poco rispetto si ha di noi, della cosiddetta opinione pubblica. La diffusione del filmato della morte di Saddam Hussein, girato con un telefono cellulare, ha destato, ovviamente, scandalo (se trattenete il respiro, penso possiate sentire anche voi, in lontananza, compite vocine di vecchie signore, con la stessa chioma azzurrino pervinca che aveva Forlani, dare vita, con tono grave e compreso, a dialoghi di una pochezza agghiacciante, tipo “Ehhh, pietà l’è morta”, “Sì, cara, però se lo meritava, il boia”) e preoccupazione (sempre durante la stessa canasta “Ehhh, ora chi li sente tutti questi marocchini”).
Mi chiedo: la diffusione del filmato a chi ha giovato?
All’Occidente, a cui è stata data finalmente la risposta a “che cosa sarebbe accaduto se Tizio o Caio avesse potuto comunicare così”? Non direi.
Agli iracheni? Meno che mai, visto che non credo avessero bisogno di un’ulteriore vigorosa soffiata sulla brace della loro conclamata guerra civile.
Alle televisioni che lo hanno trasmesso? Forse. Ma tutti servivano la stessa pietanza, tutti hanno offerto lo stesso scoop. Dunque, non direi che abbiano goduto di grandi vantaggi.
Al tizio che l’ha registrato e venduto? Forse, anche se resto convinto che molto di più gli sarebbe valsa la distruzione del filmato.
Allora, ricapitolando, noi dovremmo credere che, un signore, tra i pochissimi ammessi ad assistere di persona agli ultimi istanti della vita del Raìs, abbia estratto un telefonino, si sia travestito da cameraman e, senza che nessuno dei presenti si accorgesse di alcunché, per dueminutietrentanovesecondi abbia fissato per sempre l’atmosfera ostile e di scherno in cui Saddam è stato giustiziato. Poi, questo boia con il senso dell'umorismo torna a casa e, mentre i telegiornali stanno già diffondendo la versione edulcorata della vicenda, quella in cui tutte le persone coinvolte sembrano semplicemente svolgere un compito affidato loro da qualcuno molto più in alto (la Storia, addirittura), inizia a far circolare il video che ha girato (amici, siti internet, siti internet di amici degli amici), il quale poi viene immediatamente ripreso e spiattellato, senza alcuna esitazione, su tutti i network del mondo. Su internet mi risulta ci sia di tutto, ivi compresi quegli atroci insulti alla natura umana che sono le foto che ritraggono scene di pedofilia. Ebbene, la traslazione di quelle immagini nei notiziari di tutto il mondo è tutt’altro che automatica. Per fortuna, ovviamente.
Se bisogna partire dagli effetti che abbiamo potuto osservare, la diffusione del video ha giovato soltanto a chi ha interesse a mantenere alto il livello di tensione in Iraq e in tutto il medioriente. Sono gli stessi che hanno beneficiato del fatto che Ytzak Rabin sia stato assassinato da mano israeliana; sono gli stessi che hanno esultato quando Arafat, al momento di diventare finalmente il capo dello stato palestinese, ha preferito regalarsi l'interminabile assedio di Ramallah, piuttosto che smettere i panni del guerrigliero (e chissà chi è che gioisce oggi che l’Eta è tornata a colpire proprio quando sembrava raggiunto un accordo con Zapatero).

Per questo leggere che il governo iracheno ha disposto un’indagine per scoprire chi sia stato ad aver filmato e venduto gli ultimi istanti di Saddam mi fa arrabbiare.
Poi, mi calmo, torno a pensare alla macchina che fa un rumoretto che prima non faceva, mi ritorna in mente tutto il lavoro che ho da fare in ufficio, mi perdo dietro a "Marta che scivola piano e si sente il fruscio...". E così hanno la ragione dei forti.