Là, dove nacque Venere
Viaggio spesso per lavoro. Mi piace, malgrado la fatica e nonostante si abbiano davvero poche occasioni (e, alla fine di giornate lunghissime, anche poca voglia) di fare un po’ di turismo. Ma, ogni tanto, quando il tempo lo consente, capita di godere di momenti molto piacevoli. È stato il caso di questa settimana, a Cipro. Questo inverno, caldo come un’estate morente, è in quest’isola, dirimpettaia del Libano, addirittura abbagliante. Ora l’Europa ha davvero il suo medioriente: case bianche, piccole e quadrate si alternano a palazzi moderni, alti, con ampie finestre; le strade, spesso ancora sterrate, sono spazzate da un vento che fa sempre sentire la sua presenza. Di fronte al mare, lunghe file di palme centenarie. E poi frutta (dolce e saporita, come qui non abbiamo più) e ulivo e vite e grano. È ancora Grecia, ma è già anche Siria.
Ho passato una sera piacevolissima per i vicoli di Nicosia vecchia. Come spesso accade in queste occasioni, i miei ospiti, con l’orgoglio di chi ama la propria terra, si prodigano per far sì che io possa gustare la migliore cucina tradizionale e faccia quattro passi in mezzo alla loro storia (“Lì, dal balcone di quella chiesa, hanno impiccato otto dei nostri. Ero bambino, ma me lo ricordo perfettamente”).
Terminata, dunque, una splendida cena cipriota (ricca, profumata, abbondante), vista la sera fresca, si è optato per quattro passi digestivi, distensivi, discorsivi. Oggetto di disimpegnata conversazione, ovviamente, il lavoro: impressioni sugli incontri avuti in giornata e sulle reazioni dei nostri interlocutori. Routine, insomma. Poi, svoltato un angolo, mi si para d’innanzi un muro di cemento armato, alto, massiccio, sul cui culmine è una lunga teoria di filo spinato ed avverto forte la sensazione che la città finisca esattamente lì, in quel punto. Allora, faccio al mio accompagnatore: “Is it a border?” e lui: “No, it’s a fireline. The Turks are over there”. Scuro, molto, in volto.
La parte settentrionale di Cipro è sotto il controllo dei Turchi, i quali l’invasero nel 1974. L’occasione fu il colpo di stato che depose il presidente cipriota Makarios. Si dice che dietro al putsch ci fosse il regime greco dei colonnelli, che, tramite l’instaurazione di un governo fantoccio, intendesse così procedere all’annessione di Cipro alla Grecia. Cinque giorni dopo il golpe, le truppe di Istanbul occuparono la parte nord dell’isola, con l’intento di proteggere la minoranza cipriota di origine turca. Circa 180.000 greco-ciprioti furono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Gli americani (le cui responsabilità nell’affermarsi della dittatura in Grecia sono storicamente acclarate) e soprattutto gli inglesi (Cipro è stata colonia britannica fino al 1959) hanno visto con favore l’insorgere di questa situazione di tensione nell’isola, al fine di mantenere più facilmente una loro forte influenza su una regione ritenuta cruciale per la sua posizione strategica. Ancora oggi, infatti, gli inglesi hanno due basi militari nella parte greca, mentre gli americani ne hanno una nella zona turca (da cui sono partiti recentemente i caccia per le operazioni in Iraq). Racconto tutto questo, perché un conto è sapere le cose nella testa, un altro è sentirle nella pancia.
Ho passato una sera piacevolissima per i vicoli di Nicosia vecchia. Come spesso accade in queste occasioni, i miei ospiti, con l’orgoglio di chi ama la propria terra, si prodigano per far sì che io possa gustare la migliore cucina tradizionale e faccia quattro passi in mezzo alla loro storia (“Lì, dal balcone di quella chiesa, hanno impiccato otto dei nostri. Ero bambino, ma me lo ricordo perfettamente”).
Terminata, dunque, una splendida cena cipriota (ricca, profumata, abbondante), vista la sera fresca, si è optato per quattro passi digestivi, distensivi, discorsivi. Oggetto di disimpegnata conversazione, ovviamente, il lavoro: impressioni sugli incontri avuti in giornata e sulle reazioni dei nostri interlocutori. Routine, insomma. Poi, svoltato un angolo, mi si para d’innanzi un muro di cemento armato, alto, massiccio, sul cui culmine è una lunga teoria di filo spinato ed avverto forte la sensazione che la città finisca esattamente lì, in quel punto. Allora, faccio al mio accompagnatore: “Is it a border?” e lui: “No, it’s a fireline. The Turks are over there”. Scuro, molto, in volto.
La parte settentrionale di Cipro è sotto il controllo dei Turchi, i quali l’invasero nel 1974. L’occasione fu il colpo di stato che depose il presidente cipriota Makarios. Si dice che dietro al putsch ci fosse il regime greco dei colonnelli, che, tramite l’instaurazione di un governo fantoccio, intendesse così procedere all’annessione di Cipro alla Grecia. Cinque giorni dopo il golpe, le truppe di Istanbul occuparono la parte nord dell’isola, con l’intento di proteggere la minoranza cipriota di origine turca. Circa 180.000 greco-ciprioti furono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Gli americani (le cui responsabilità nell’affermarsi della dittatura in Grecia sono storicamente acclarate) e soprattutto gli inglesi (Cipro è stata colonia britannica fino al 1959) hanno visto con favore l’insorgere di questa situazione di tensione nell’isola, al fine di mantenere più facilmente una loro forte influenza su una regione ritenuta cruciale per la sua posizione strategica. Ancora oggi, infatti, gli inglesi hanno due basi militari nella parte greca, mentre gli americani ne hanno una nella zona turca (da cui sono partiti recentemente i caccia per le operazioni in Iraq). Racconto tutto questo, perché un conto è sapere le cose nella testa, un altro è sentirle nella pancia.
In quello scorcio di Nicosia – che ho visto in una sera d’inverno tanto dolce da sembrare estate – erano condensati il colonialismo, la strategia della tensione, l’odio interetnico, l’insensatezza della guerra, il dramma dei profughi, l’impotenza del peace-keeping, i 29 mesi di servizio militare che ancora oggi toccano ai giovani ciprioti greci, le armi in ogni casa, la sensazione di spreco, di dissipazione che trasmette toccare con mano quanto poco tempo e quanto poco sforzo ci vogliano a distruggere quanto si è costruito in secoli di convivenza.
E ancora maggiore è il senso di frustrazione che si prova nel vedere che gli effetti nefasti di tutto questo sono simili a scorie nucleari: hanno un tempo di decadimento lungo, lunghissimo, durante il quale, per loro causa, ci si ammala e si muore.
E ancora maggiore è il senso di frustrazione che si prova nel vedere che gli effetti nefasti di tutto questo sono simili a scorie nucleari: hanno un tempo di decadimento lungo, lunghissimo, durante il quale, per loro causa, ci si ammala e si muore.