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Detesto scoprirmi violento. Eppure mi capita, come credo accada non solo a me, di compiere, quasi inconsapevolmente, gesti intrinsecamente violenti.
Ero in macchina, fermo, aspettando che arrivasse l’ora del mio appuntamento. Ascoltavo la radio, masochisticamente affliggendomi con le telefonate da casa di dichiarati prossimi elettori del Partito Democratico. Avevo chiaramente bisogno di qualcos’altro che mi aiutasse a superare l’abiezione del momento che mi stavo ritagliando. E, dunque, quale altra migliore occasione per il necessario mantenimento della rubrica del telefonino? Direte: “E allora? Dov’è la violenza?”
L’operazione appare in effetti banale. Invece, essa implica una serie di valutazioni tutt’altro che leggere. Pensate a come accade la cosa. Come primo passo, si scorre, nella sua interezza, la lista delle persone di cui si ha il contatto. Come altro definire questo passaggio, se non già come un vero e proprio autodafè della propria esistenza? In un centinaio di nomi, asetticamente ordinati in successione alfabetica, c’è quello che, con ogni evidenza, è un distillato della nostra vita: i pochi compagni della scuola che hanno resistito all’usura del tempo, il meccanico, mamma, la cugina che vive in Germania, il dentista, il cellulare del capo, il numero di casa, il numero di quella coppia che si è incontrata tre anni fa al mare e che era tanto simpatica (come si chiamava il marito?), il circolo del calcetto. E così via, sgranando il rosario.
Inevitabilmente, chiuso il cerchio dalla A alla Z, si hanno dieci secondi durante i quali, un po’ sgomenti, ci si dice “Tutto qui?”. A scacciare immediatamente questa sgradevole sensazione, si parte con il secondo giro, in cui si selezionano i non meritevoli di restare con noi, quelli che dovranno lasciare il posto a chi verrà nella nostra vita. Ed ecco la violenza: perché non si giudica sulla base di quello che la persona ha rappresentato per noi, ma per quello che rappresenterà in futuro. C’è, insito in questa valutazione, un calcolo di opportunità (e - temo - di opportunismo). Nel decidere se ci sia ancora utile o meno un certo numero di telefono, di fatto sottoponiamo al medesimo vaglio la persona a cui esso appartiene. La ristrettezza delle nostre rubriche (e della nostra memoria, dunque) ci impone, per mantenere intatte le nostre speranze di un futuro ricco di cose bellissime, di tagliare ricordi felici che si pensa non torneranno più. (Sarà per questo che davvero il telefonino è diventata una nostra appendice, qualcosa che non possiamo tollerare di dimenticare a casa, quando al mattino iniziamo la nostra giornata?)
Per ogni nome in predicato di essere cancellato si apre un vero e proprio processo in cinque secondi, secondo un rito che avrebbe fatto felice Achille Campanile: “Non lo vedo più, ormai. Però, è uno che mi piace. Quanto ci siamo divertiti in Croazia quell’anno... Anzi, chissà perché non ci siamo più sentiti. Mi sa per la donna, che è una a cui non sono mai andato a genio. E lui ha ceduto. Mah.. Però, forse, anche io se dovessi scegliere tra la lei e un amico, che farei? Comunque non vedo come possa cambiare questa situazione e dunque lo cancello. Se mai mi dovesse servire qualcosa, chiedo il suo numero a Luca.”
Abbiamo assorbito, anche nei rapporti umani, la logica aziendalista, facendo nostro l’imperativo di eliminare i costi inutili, di tagliare i rami secchi.
La cosa che più mi indigna di me è che, appena commesso il delitto in punta di tasto, ho persino il cattivo gusto e l’ignavia di pensare che, se per caso mi dovesse capitare di incontrare fortuitamente il tipo che ho appena eliminato dalla casa del mio Grande Fratello, avrò sempre la possibilità di dirgli: “Sai, ho perso il cellulare e non avevo più il tuo numero.”
Violento. E pure vigliacco.
Ero in macchina, fermo, aspettando che arrivasse l’ora del mio appuntamento. Ascoltavo la radio, masochisticamente affliggendomi con le telefonate da casa di dichiarati prossimi elettori del Partito Democratico. Avevo chiaramente bisogno di qualcos’altro che mi aiutasse a superare l’abiezione del momento che mi stavo ritagliando. E, dunque, quale altra migliore occasione per il necessario mantenimento della rubrica del telefonino? Direte: “E allora? Dov’è la violenza?”
L’operazione appare in effetti banale. Invece, essa implica una serie di valutazioni tutt’altro che leggere. Pensate a come accade la cosa. Come primo passo, si scorre, nella sua interezza, la lista delle persone di cui si ha il contatto. Come altro definire questo passaggio, se non già come un vero e proprio autodafè della propria esistenza? In un centinaio di nomi, asetticamente ordinati in successione alfabetica, c’è quello che, con ogni evidenza, è un distillato della nostra vita: i pochi compagni della scuola che hanno resistito all’usura del tempo, il meccanico, mamma, la cugina che vive in Germania, il dentista, il cellulare del capo, il numero di casa, il numero di quella coppia che si è incontrata tre anni fa al mare e che era tanto simpatica (come si chiamava il marito?), il circolo del calcetto. E così via, sgranando il rosario.
Inevitabilmente, chiuso il cerchio dalla A alla Z, si hanno dieci secondi durante i quali, un po’ sgomenti, ci si dice “Tutto qui?”. A scacciare immediatamente questa sgradevole sensazione, si parte con il secondo giro, in cui si selezionano i non meritevoli di restare con noi, quelli che dovranno lasciare il posto a chi verrà nella nostra vita. Ed ecco la violenza: perché non si giudica sulla base di quello che la persona ha rappresentato per noi, ma per quello che rappresenterà in futuro. C’è, insito in questa valutazione, un calcolo di opportunità (e - temo - di opportunismo). Nel decidere se ci sia ancora utile o meno un certo numero di telefono, di fatto sottoponiamo al medesimo vaglio la persona a cui esso appartiene. La ristrettezza delle nostre rubriche (e della nostra memoria, dunque) ci impone, per mantenere intatte le nostre speranze di un futuro ricco di cose bellissime, di tagliare ricordi felici che si pensa non torneranno più. (Sarà per questo che davvero il telefonino è diventata una nostra appendice, qualcosa che non possiamo tollerare di dimenticare a casa, quando al mattino iniziamo la nostra giornata?)
Per ogni nome in predicato di essere cancellato si apre un vero e proprio processo in cinque secondi, secondo un rito che avrebbe fatto felice Achille Campanile: “Non lo vedo più, ormai. Però, è uno che mi piace. Quanto ci siamo divertiti in Croazia quell’anno... Anzi, chissà perché non ci siamo più sentiti. Mi sa per la donna, che è una a cui non sono mai andato a genio. E lui ha ceduto. Mah.. Però, forse, anche io se dovessi scegliere tra la lei e un amico, che farei? Comunque non vedo come possa cambiare questa situazione e dunque lo cancello. Se mai mi dovesse servire qualcosa, chiedo il suo numero a Luca.”
Abbiamo assorbito, anche nei rapporti umani, la logica aziendalista, facendo nostro l’imperativo di eliminare i costi inutili, di tagliare i rami secchi.
La cosa che più mi indigna di me è che, appena commesso il delitto in punta di tasto, ho persino il cattivo gusto e l’ignavia di pensare che, se per caso mi dovesse capitare di incontrare fortuitamente il tipo che ho appena eliminato dalla casa del mio Grande Fratello, avrò sempre la possibilità di dirgli: “Sai, ho perso il cellulare e non avevo più il tuo numero.”
Violento. E pure vigliacco.