Italo
Mi chiamo Italo, a luglio compio quarantanove anni e vivo a Roma. Ho una moglie e tre figli (due maschi e una femmina). Di mestiere faccio il tranviere, cioè guido l’autobus. Voglia di studiare ne ho sempre avuta poca, così ho smesso dopo tre anni di ragioneria. Quando lo dissi a mio padre, lui non batté ciglio e mi portò dal sor Mario, che aveva l’officina giù all’Acqua Bullicante. Il sor Mario era amico di mio padre (anche se a casa nostra non veniva mai) e così mi prese a bottega. Nel quartiere si diceva che se avevi problemi di baiocchi, potevi andare da lui “che se glieli chiedi, te li presta…”. Non lo so se davvero dava i soldi a strozzo (certo, gente col cappello in mano se ne vedeva in officina), ma con me il sor Mario è stato una brava persona. Ci ha provato ad insegnarmi il mestiere, compreso come si fa a dare qualche fregatura a qualcuno che se lo merita, ma io in realtà non volevo fare il carrozziere e così lasciai perdere. La verità è che non avevo voglia di lavorare. Ero bello, a quel tempo. Lo so che ora che sono così, con la pancia, la pelata in testa e i peli che escono a ciuffi dal naso e dalle orecchie, è difficile da credere. Ma ero bello. Mi piaceva andare al mare, a Ostia, giù ai cancelli. Andavamo io e Franco, con il mio Vespino, e stavamo tutto il giorno a dare la caccia alle ragazze. Il primo che beccava, tornava a casa con la Vespa e la ragazza, l’altro da solo con l’autobus. A Ostia, fra l’altro, vidi per la prima volta mia moglie.
Quando smisi di andare dal sor Mario, mio padre non mi rivolse più la parola. Io entravo in una stanza e lui usciva. Io mi sedevo a tavola e lui si alzava per andare a vedere la televisione. Mia mamma soffriva terribilmente questa situazione. Ogni volta che provava a dire a mio padre “Alfio, è ancora un ragazzo…”, lui le rispondeva “È un ragazzo un bel cazzo. Quello vuol fare solo la bella vita!” e sbatteva con forza la mano sul tavolo, come a darmi quello schiaffo che non mi ha mai mollato davvero.
Mia mamma era una donna molto semplice e religiosa. Andava a messa tutte le settimane. Una domenica mattina, dopo la funzione, andò da Don Lino, il parroco, a parlargli di questo figlio che non voleva avere né arte né parte. Don Lino mi conosceva, nel senso che sapeva chi ero e ricordava che, quando avevo sette, otto anni, andavo con i miei compagni a fare il chierichetto. Qualche domenica dopo, il prete, licenziati i fedeli con la formula canonica, fece cenno a mia mamma, che come sempre era in prima fila, di seguirlo in sagrestia. Dandole le spalle mentre riponeva con cura i paramenti, le disse che le porgeva la benedizione del cardinal Rocchi, al quale il presidente dell’azienda comunale trasporti, devotissima persona di cui l’alto prelato era insieme padre confessore e consigliere spirituale, aveva manifestato la propria preoccupazione per la difficoltà di trovare giovani assennati che potessero diventare buoni autisti. Don Lino le disse anche che ero atteso l’indomani mattina all’azienda trasporti.
Sono quasi trent’anni che guido gli autobus. Da quando ho iniziato, è cambiato tutto. Una volta guardavo dentro lo specchietto retrovisore e vedevo persone attente a non prendersi più libertà di quanta non ne concedessero il decoro e la buona educazione. Gli anziani erano seduti ed i giovani restavano in piedi. Si vedevano scarpe consumate ma lucide e giacche con le toppe ai gomiti. L’autobus della mattina era un pieno di persone prima di tutto ricche di decenza e rispetto verso se stesse. Insomma, era un’Italia un po’ più povera, ma molto più dignitosa.
Oggi, ragazzine dell’età di mia figlia salgono in gruppo, ridendo e strillando come se fossero sole in una piazza deserta. Hanno quindici anni e sono vestite alle nove di mattina come quelle che alla sera sono in televisione. Quando sono fermo al semaforo, le spio dal retrovisore. Se si accorgono di essere osservate, si mettono in posa e fissano lo specchietto come fosse una telecamera accesa. Non penso mai che mia figlia è una di loro. Anche mia figlia farà così? Sicuro, anche se in realtà non lo so. Veramente non so niente di lei. Quando ero ragazzo, era mio padre a volermi evitare, oggi è mia figlia. Sta sempre insieme a quell’amica sua cicciottella, Nadia, e non si sa mai dove vadano né con chi stiano. E poi (altro mistero) è sempre al cellulare; il suo telefono, tra sms e chiamate, squilla continuamente. È mai possibile che solo io, quando la chiamo, lo trovi invariabilmente chiuso? Non so neanche se va bene a scuola, se ha un fidanzato, se è ancora vergine. Niente. Parla solo con sua madre. Le sole volte che mi rivolge parola è quando mi chiede soldi: per andare al mare con gli amici, per la ricarica del telefonino, per la benzina del motorino, per qualsiasi cosa. Bisogna che la madre glielo dica che tocca cambiare registro. Perché tanto la colpa è di mia moglie: quando io mi impongo e nego qualcosa ai figli, lo so che lei alla fine, di nascosto, gliela dà. Lo fa perché vuole essere la genitrice preferita. Stronza. E invece una regolata se la deve dare pure lei, la stronza, perché, tra il mutuo, la rata della macchina e tutto il resto, di soldi non ce n’è più e non è più tempo di buttarli via comprando sandali e occhiali da sole alle bancarelle da quei Mustapha, Ibrahim e Mohamed, che non ho capito perché poi devono venire tutti qui, invece di starsene a casa loro, in Africa o dove gli pare.
E ora? Che c’è adesso? Ah, eccone un altro che non sa dov’è che deve scendere. Ma non lo sai che non si parla al conducente? Bello mio, se non sai qual è la tua fermata, sono cazzi tuoi. È la vita, mi dispiace.
Io, finito questo giro, vado a casa.
Quando smisi di andare dal sor Mario, mio padre non mi rivolse più la parola. Io entravo in una stanza e lui usciva. Io mi sedevo a tavola e lui si alzava per andare a vedere la televisione. Mia mamma soffriva terribilmente questa situazione. Ogni volta che provava a dire a mio padre “Alfio, è ancora un ragazzo…”, lui le rispondeva “È un ragazzo un bel cazzo. Quello vuol fare solo la bella vita!” e sbatteva con forza la mano sul tavolo, come a darmi quello schiaffo che non mi ha mai mollato davvero.
Mia mamma era una donna molto semplice e religiosa. Andava a messa tutte le settimane. Una domenica mattina, dopo la funzione, andò da Don Lino, il parroco, a parlargli di questo figlio che non voleva avere né arte né parte. Don Lino mi conosceva, nel senso che sapeva chi ero e ricordava che, quando avevo sette, otto anni, andavo con i miei compagni a fare il chierichetto. Qualche domenica dopo, il prete, licenziati i fedeli con la formula canonica, fece cenno a mia mamma, che come sempre era in prima fila, di seguirlo in sagrestia. Dandole le spalle mentre riponeva con cura i paramenti, le disse che le porgeva la benedizione del cardinal Rocchi, al quale il presidente dell’azienda comunale trasporti, devotissima persona di cui l’alto prelato era insieme padre confessore e consigliere spirituale, aveva manifestato la propria preoccupazione per la difficoltà di trovare giovani assennati che potessero diventare buoni autisti. Don Lino le disse anche che ero atteso l’indomani mattina all’azienda trasporti.
Sono quasi trent’anni che guido gli autobus. Da quando ho iniziato, è cambiato tutto. Una volta guardavo dentro lo specchietto retrovisore e vedevo persone attente a non prendersi più libertà di quanta non ne concedessero il decoro e la buona educazione. Gli anziani erano seduti ed i giovani restavano in piedi. Si vedevano scarpe consumate ma lucide e giacche con le toppe ai gomiti. L’autobus della mattina era un pieno di persone prima di tutto ricche di decenza e rispetto verso se stesse. Insomma, era un’Italia un po’ più povera, ma molto più dignitosa.
Oggi, ragazzine dell’età di mia figlia salgono in gruppo, ridendo e strillando come se fossero sole in una piazza deserta. Hanno quindici anni e sono vestite alle nove di mattina come quelle che alla sera sono in televisione. Quando sono fermo al semaforo, le spio dal retrovisore. Se si accorgono di essere osservate, si mettono in posa e fissano lo specchietto come fosse una telecamera accesa. Non penso mai che mia figlia è una di loro. Anche mia figlia farà così? Sicuro, anche se in realtà non lo so. Veramente non so niente di lei. Quando ero ragazzo, era mio padre a volermi evitare, oggi è mia figlia. Sta sempre insieme a quell’amica sua cicciottella, Nadia, e non si sa mai dove vadano né con chi stiano. E poi (altro mistero) è sempre al cellulare; il suo telefono, tra sms e chiamate, squilla continuamente. È mai possibile che solo io, quando la chiamo, lo trovi invariabilmente chiuso? Non so neanche se va bene a scuola, se ha un fidanzato, se è ancora vergine. Niente. Parla solo con sua madre. Le sole volte che mi rivolge parola è quando mi chiede soldi: per andare al mare con gli amici, per la ricarica del telefonino, per la benzina del motorino, per qualsiasi cosa. Bisogna che la madre glielo dica che tocca cambiare registro. Perché tanto la colpa è di mia moglie: quando io mi impongo e nego qualcosa ai figli, lo so che lei alla fine, di nascosto, gliela dà. Lo fa perché vuole essere la genitrice preferita. Stronza. E invece una regolata se la deve dare pure lei, la stronza, perché, tra il mutuo, la rata della macchina e tutto il resto, di soldi non ce n’è più e non è più tempo di buttarli via comprando sandali e occhiali da sole alle bancarelle da quei Mustapha, Ibrahim e Mohamed, che non ho capito perché poi devono venire tutti qui, invece di starsene a casa loro, in Africa o dove gli pare.
E ora? Che c’è adesso? Ah, eccone un altro che non sa dov’è che deve scendere. Ma non lo sai che non si parla al conducente? Bello mio, se non sai qual è la tua fermata, sono cazzi tuoi. È la vita, mi dispiace.
Io, finito questo giro, vado a casa.
5 Comments:
Dovresti prenderti un po' di tempo per scrivere un bel romanzo, che secondo me è in assoluto la cosa che ti riuscirebbe meglio. Nel frattempo potrebbe mantenerti il Grigio, in cambio di un 10% a vita sui diritti dei tuoi libri.
Lo Scuro.
26 maggio, 2008 16:54
... se sia la cosa che ti riesce meglio non lo so, certo ti vengono bene questi affreschi!
E soprattutto... sono piuttosto realistici nella sensazione di cambio generazionale e di (a mio avviso) perdita di certi principi fondamentali come il rispetto e la dignità personale.
Un dubbio, hai preso l'autobus in questi giorni o ti è sorto così?
CIAO
26 maggio, 2008 17:53
Un bel post anche questo, in cui è messo in evidenza, in forma riflessivo-autobiografica, il contrasto generazionale.
Indubbiamente la situazione descritta dal simpatico Italo è molto realistica, ad evidenziare un quasi scambio di ruoli fra genitori e figli in due epoche diverse...
Nell'epoca in cui viviamo c'è, ahimè, troppo permissivismo verso i giovani, non va...
Complimenti, come sempre
HBK
27 maggio, 2008 19:19
Come sempre, mi hai fatto vivere ciò che ho letto, tanto da vederne anche le facce!
Una gran bella emozione.
Grazie
31 maggio, 2008 09:14
Amaro e incazzato parecchio, Italo...
Con se stesso o con il mondo??
Alla fine l'ho letto, visto?
Ciao!
P.
31 maggio, 2008 10:59
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