Non avevo messo la sveglia. Un po’ perché ero andato a letto molto tardi ed ero stanco di una giornata pesante. Un po’ perché m’ero detto che se veramente avessi avuto voglia di andare (oltre al ritenerlo giusto, ovviamente), mi sarei svegliato da solo in tempo utile. Ed infatti, dopo quattro ore luride ore di sonno, spalanco gli occhi qualche minuto prima delle otto e mezzo. Nemmeno il tempo di riprendere coscienza e di constatare con piacere che in questa giornata di novembre il mio Voler Essere ed il mio Dover Essere hanno deciso di andare a braccetto, che squilla il telefono. È Bernini, alias Mastro Alcofribas, che mi chiede conferma della mia venuta. Contento, lo rassicuro. Abluzioni rapide e sommarie, maglietta del Che d’ordinanza e via ad aggredire l’Autosole.
Lo trovo bene, come al solito insomma. E non si leva mai quel solito sorriso da animatore che non solo non gli rende giustizia esteticamente (con quella dentatura cavallina), ma nemmeno eticamente. Nella sostanza, invece, è un sincero. È un sincero pallonaio. Comunque, sarà anche perché c’è l’aria dell’evento memorabile e la produzione endogena di eccitanti aumenta, mi sento sicuro che ha piacere di condividere con me questa giornata.
Arriviamo a Firenze facilmente, abbiamo due sorrisi stupidi entrambi e entrambi non vediamo l’ora di stupirci. Lasciamo il cavallo dove capita e c’è il problema di capire dove andare. Ci conduce sulla retta via un gentilissimo pizzardone. Fa freddo, ammazza se fa freddo. Ho anche il terrore, che ahimè si rivelerà fondatissimo, di aver sbagliato le scarpe. La polizia, che è tanta come ti aspetteresti, ti guarda, ma non in maniera cattiva. È strano. Vien quasi di pensare che il clima di fratellanza li abbia contagiati. Poi ti accorgi che è un pensiero troppo ottimista anche per una giornata così e più lucidamente opti per credere che gli hanno ordinato di starsene quieti. Il che, sempre lucidamente, ti fa incazzare, perché capisci che non sempre glielo ordinano. Alla stazione c’è tutto il bailamme che ti aspetti da una stazione in un giorno così. Gente seduta ovunque, quasi tutti per terra. Birre, e non solo birre, alle 11 di mattina. Creste punk lunghe ed arrabbiate, ma davvero anacronistiche. Molto piercing, ovunque. Due tipi, credo francesi, si baciano oscenamente. Naturalmente li fotografo. Due ragazzine, con kefiah d’ordinanza ed un non prevedibile fazzolettone scout, si tengono per la mano. Voglio fotografare anche loro, ma mentre lo sto facendo si girano verso di me. Allora, mi vergogno come un ladro e lascio stare. Peccato, m’avrebbe fatto piacere portarmele via.
Bernini si guarda attorno e capisco che vede il tutto come se fosse uno spettacolo. Credo stia riflettendo su quali altri costumi si potevano utilizzare, se la Fortezza da basso era veramente la scenografia più giusta per una tale azione scenica. In ogni caso, tace e beve con gli occhi. Certo la gente è bella quando ci si mette. La giornata è fredda e grigia. Anzi, se non stonasse a dirsi, fa proprio schifo come giornata. Però la gente la colora. E l’allegrezza non è per niente stonata, anche se si parla di cose serie.
Cominciamo a risalire il corteo. È abbastanza rado, però non se ne vede la testa. All’inizio non ci sembra che ci sia tantissima gente. Man mano che avanziamo però la strada invece di accorciarsi si allunga e le persone si moltiplicano. E si moltiplicano le voci, i balli, le lingue, gli striscioni. Tutti si guardano negli occhi e si sorridono. È bellissimo questo. Sarebbe bellissimo se la vita fosse sempre così. Guardo negli occhi una ragazza che mi sorride e mi viene vicino, fa un pezzo di strada con me. Non le dico niente. Poi ritorna verso le sue amiche, si rigira un’ultima volta e mi saluta con la mano. Di lei ricordo il maglione verde e il naso all’insù. Fa freddo, ammazza se fa freddo. E adesso ho anche fame. Abbiamo bruciato le calorie del cappuccio in autostrada, però lungo il percorso del corteo non c’è un negozio aperto. La signora Fallaci un risultato (uno solo però) l’ha ottenuto. Ma anche la nostra piccola fame ha un suo perché oggi: dà qualche piccola giustificazione al nostro sentirci eroi. Bè, la danno anche i saluti che ci piovono addosso dai balconi delle case che si affacciano su di noi. C’è chi appende lenzuola con slogan semplici, banali, autoevidenti, giusti. Pace. No alla guerra. Non ci sono nemmeno troppi insulti al Berlusca. Perché il Berlusca, alla fin fine, è una piccolezza (certo fastidiosa, anzi fastidiosissima) di cui oggi non ci si occupa.
Ci sono quelli che abitano al piano terra ed offrono caffè caldo ed acqua fresca ai manifestanti. C’è chi tira i coriandoli dai terrazzi e saluta con la mano. C’è chi manda baci. Noi si risponde. Tutto il corteo è abbracciato ai lati da migliaia di persone che non sfilano, ma sono venuti a vedere. E ci applaudono. Alla fine, io e Bernini ci lasciamo convincere, anzi proprio sedurre, dall’idea che oggi abbiamo fatto qualcosa di giusto.
C’è il padre di Carlo Giuliani.
Ci sono gli olandesi, coloratissimi. Ci sono i portoghesi, che dicono un sacco di parolacce e qualche bestemmia pure. Ci sono i greci, che sono i più “professionali” di tutti. Alternano i cori in greco con quelli in italiano. Le traduzioni lasciano un po’ a desiderare, specie per quanto riguarda la scansione ritmica degli slogan, ma così sono molto più simpatici. Ci sono i palestinesi, che cantano e ballano continuamente, e fai fatica ad accettare di vederli così allegri con tutto quello che gli capita da anni. Ci sono gli spagnoli che, contrariamente a quel che credevo, non fanno casino per niente. Sono molto compiti e bevono di continuo birra, forse per scaldarsi. Ci sono i curdi, che parlano forte, più forte di tutti. Vogliono esser sicuri che ci si accorga di loro.
Ci sono gli operai della FIAT. Sono gli unici ad avere una faccia diversa e te ne accorgi.
E, finalmente, c’è il piazzale dello stadio. Ci sono i piedi rotti, che, non appena ti siedi, bussano dentro le scarpe e chiedono di uscire. Ci sta un panino con salsiccia (fredda e grassissima) orrendo, mefitico e cattivo. Però, c’è anche la fame e alla fine il panino mi sembra persino buono. Ci starebbe anche una birra, anzi due.
C’è, poco avanti a me, la ragazza con il maglione verde. Sta facendo un massaggio ad una sua amica. Mi riconosce e mi chiede se dopo voglio essere il prossimo. Certo che mi va. Però mi coglie di sorpresa, non me lo aspettavo e mi vergogno. Le sorrido e dico no, grazie. Mi guarda male. È anche l’ultima volta che mi guarda.
Ci sono l’intelligenza e la finezza di Riondino sul palco e c’è la festa che comincia. C’è la musica. Bernini suona quella batteria che gli sta davanti e che nessuno vede (io sì però). Io suono tutto quello che mi capita a tiro. Mi faccio sommergere, beato e placido, dalla mia stessa contentezza e nemmeno mi interessa di capirla. Sono contento perché sono contento.
C’è la stanchezza.
C’è il piacere di avere fatto una cosa che era giusto fare. C’è il piacere di saltare ancora e ancora più in alto. C’è il piacere di sentire che democrazia suona più o meno uguale in tutte le lingue. C’è la necessità di domandarsi se sia giusto trovarsi accanto alla gigantografia di Oçalan e la pacificazione che ti dona finalmente il capire che non a tutto si può dare una risposta univoca. C’è il piacere, anzi di più, la soddisfazione, di capire che se non è giusto, non è nemmeno sbagliato.
C’è poi tutto quello che ancora non ho fermato e che, forse, riuscirò a fermare. Assieme a quelle della reflex, aspetto di sviluppare compiutamente anche le foto che ho fatto con la testa.
Solo tu, mannaggia, non c’eri.