"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

mercoledì, maggio 31, 2006

Una giornata tutt'altro che uggiosa

Trasferta di lavoro. Una Brianza niente affatto velenosa. Anzi, giornate di sole splendido. Già questo sarebbe sufficiente perché io registri il tutto sotto la voce Avere. In più, ho visto ed imparato cose molto interessanti, che hanno a che fare con problemi cruciali per il futuro delle imprese italiane. E dunque con il futuro dell’Italia.
Si può concretare il proprio impegno civile lavorando nelle sezioni di partito, nel sindacato, nell’associazionismo (laico o cattolico che sia) o ancora in cento altri modi. C’è poi l'agire politico, quello che pone materialmente in essere le condizioni perché le scelte strategiche si trasformino in cambiamenti reali, tangibili della società. In questi due giorni, ho visto un caso (raro) in cui si è concretamente realizzata una di quelle panacee di cui si legge ogni tre righe in qualsivoglia documento strategico, redatto per una qualsiasi finalità. Sto parlando del per certi versi mitologico circuito virtuoso tra imprese, centri di ricerca, sistema finanziario, Stato ed enti locali, capace di generare una mirabile coesistenza tra interessi privati ed interessi pubblici (che quasi sempre, ideologicamente, viene data per scontata ed automatica), grazie al quale si può affrontare il problema del recupero di competitività del nostro sistema industriale. Stavolta ho persino ben digerito (cioè senza somatizzare) tutte le inevitabili chiacchiere, trite e ritrite, sulle best-practices aziendali, cioè su quelle regolette zen (Diversificazione, Knowledge, Outsourcing, Human Capital, Information Technology e mille altre superstizioni a cui i manager d’impresa non riescono a sottrarsi) che nei manuali vengono spacciate per segreti alchemici in grado di trasformare in oro il vile metallo di una qualsiasi azienda, di qualsiasi dimensione, operante in un qualsiasi settore. In questa occasione, sono stati gli stessi ricercatori ad innescare il circolo virtuoso, individuando le possibili applicazioni industriali dei risultati del loro lavoro. È questo però un evento davvero eccezionale, in un paese in cui la ricerca serve prima di tutto a produrre cattedre accademiche. L'identificazione degli spin-off della ricerca di base è invece un’attività interdisciplinare per la quale è necessario di saper prefigurare i possibili futuri utilizzi delle nuove tecnologie in campi anche molto lontani da quelli in cui esse vengono sviluppate. Essa già oggi rappresenta un momento critico del nostro tentativo di recupero di competitività.
A lasciarmi le impressioni di cui sto dando conto ha concorso senz’altro l’aver visto “fisicamente” mandrini, torniture a diamante, pannelli insieme leggeri, resistenti e con rugosità praticamente assente, specchi per i raggi X. La cosa mi ha confortato in un altro dei miei più profondi convincimenti: è imprescindibile per un qualsiasi sistema industriale mantenere una quota minima di secondario, scendendo sotto la quale non c’è terziario che possa svilupparsi. La terziarizzazione dell’economia, persino nel pieno del processo irreversibile di globalizzazione da cui siamo investiti, ha bisogno di una quota minima di old economy che goda di ottima salute. Contrariamente a quel che si crede, questo paese possiede eccome le necessarie capacità distintive in settori ad alta tecnologia (che sono sì di nicchia, ma in grado di avere ricadute potenzialmente straordinarie sui settori tradizionali) per sostenere questa quota vitale di old economy. Ci sono imprese italiane, senz’altro sottodimensionate e per nulla aiutate da un mercato finanziario che non assolve ai propri compiti, ma che ugualmente sono dinamiche e capaci. C’è poi una ricerca di base che, nonostante le difficoltà derivanti da una strutturale scarsezza di risorse umane e finanziarie e da un’endemica incapacità di gestione, sa essere comunque alla frontiera in moltissimi campi di studio. Quel che non abbiamo sono dei catalizzatori di trasferimento tecnologico, ovvero quei soggetti (o meglio ancora quei meccanismi) in grado di: i) comprendere l’importanza per l’industria di quello che i ricercatori hanno trovato; ii) agevolare la prosecuzione e l’ulteriore ampliamento delle linee di ricerca già attive; iii) rendere visibili alle aziende le opportunità che possono scaturire dallo sfruttamento di spin-off di una ricerca di base che nasce senza alcun occhio ai suoi possibili utilizzi industriali; iv) porsi quali strumenti di straordinaria forza per l’effettiva implementazione delle politiche di sviluppo locale.
In realtà, quello che ho qui brevemente descritto è un vero e proprio servizio pubblico e, dunque, non sono sicuro sia corretto (in linea di principio) che ad innervare questo tessuto connettivo così importante per la nostra economia non sia un soggetto che porta sul capo un cappello istituzionale. (Per le stesse ragioni, credo non sia stato corretto privatizzare i grandi monopoli naturali.)
Se mai il neocostituito Ministero dello Sviluppo Economico istituirà un proprio “Gruppo Enzimi per il Trasferimento Tecnologico (GETT)”, ebbene io manderò un CV.

domenica, maggio 28, 2006

Tutte le vacche sono almeno grigio scuro

Io amo il calcio. Sono tifoso da sempre di una squadra che, almeno per il momento, non pare sia stata parte di quello che è stato ribattezzato il “sistema Moggi”. È la squadra (e più ancora lo sono i suoi vertici) che ormai è divenuta l’emblema del donchisciottismo, ovvero di una certa coglioneria ammantata di nobiltà d’animo, per la quale, da ben diciassette anni, noi che la tifiamo siamo più o meno affabilmente canzonati da tutta Italia. Ora si sa che, accanto alla nostra innegabile inettitudine, c’erano anche altre rilevanti ragioni per le quali le nostre indefesse speranze, anno dopo anno, sono andate regolarmente deluse.
Come tifoso, non ne godo.
Come cittadino, sono felice che un po’ di legalità venga ripristinata (e che ciò venga fatto con il concorso e l’opera di Francesco Saverio Borrelli, italiano benemerito) in un ambiente, quale è quello calcistico, che si è caratterizzato specialmente negli ultimi dieci anni per un’inspiegabile sospensione dello stato di diritto. Aspetto con gioia e fiducia che le curve siano liberate da quella masnada di violenti bamboccioni, incapaci di essere semplicemente spettatori di un evento, che sono strumentalizzati politicamente da qualche ex-picchiatore fascista (oggi giusto lievemente ripulito) e la cui rabbia verso il mondo viene sfruttata economicamente dai propri capi bastone. Aspetto che finalmente gli stadi tornino territorio dello Stato italiano, ove vigono e sono fatte rispettare le leggi dello Stato italiano.
Come persona, poi, mi rallegro che l’irrazionale (ed irragionevole) mio sospetto che Lombroso sia stato il più grande scienziato di tutti i tempi abbia avuto negli ultimi due mesi un paio di prove a supporto praticamente decisive (Previti e Moggi).
Io non so quali saranno gli esiti delle inchieste penali e dei processi che probabilmente da esse scaturiranno. Non mi interessa vedere Lucianone tradotto in ceppi o Geronzi costretto a vendere la banca. Però, vorrei fosse ribadito una volta per tutte che non c’è affatto bisogno di una sentenza penale per poter condannare il comportamento di una persona. Essere cliente di prostitute non è contro la legge, ma è un comportamento socialmente esecrabile, perché concorre a determinare la schiavitù di molte delle signorine che vediamo il sabato sera in strada.
Allo stesso modo, non ho bisogno di vedere sancita da una condanna dei magistrati la disonestà di chi ha governato il calcio, ovvero l’oggetto della passione di milioni di italiani. C’era chi controllava il sistema arbitrale e il mercato dei calciatori ed era in accordo con chi poteva impedire o favorire il buon esito delle trattative di cessione dei diritti televisivi (che costituiscono la parte maggioritaria degli introiti di una società di calcio). Questo calcio era poi governato, per conto dello Stato, da chi era al contempo a capo della Federazione e presidente della banca d’affari con cui un numero elevato ed imprecisato di squadre professionistiche erano e sono indebitate fino al collo.
Il voto con cui la Lega calcio, ad inizio settimana, nonostante tutto quello che è sui giornali da circa un mese, non ha sfiduciato il proprio presidente ai più è parso quasi inconcepibile e comunque disperante. Io, invece, temo di averne perfettamente compreso il senso. Questi signori, così vessati dalla prepotenza del capostazione di Civitavecchia e dei suoi sodali, ci hanno detto che la mafia del calcio conviene anche a chi la subisce. Per questo nessuno, non un solo dirigente di quelle squadre, i cui tifosi ogni anno giurano che è l’ultima volta che fanno l’abbonamento e insieme sperano sia finalmente la stagione giusta, ha mai denunciato niente alla magistratura (ordinaria o sportiva che dir si voglia). Per questo, ancora oggi, nessuno ha formalmente mai chiesto le dimissioni ad alcuno, neppure dopo che, con una nota ufficiale, la squadra il cui amministratore delegato è anche presidente di Lega ha candidamente ammesso che quest’ultimo s’è adoperato per raccomandare un arbitro addirittura al numero due del governo italiano. All'epoca dei fatti, lo dico per i pochi lettori venusiani di questo blog, il numero uno del governo italiano era contemporaneamente anche il maggiore azionista della squadra di cui stiamo parlando e il proprietario fondatore del gruppo televisivo che si è assicurato (al termine di trattative gestite dal presidente di Lega) i diritti televisivi per trasmettere il campionato di calcio su una piattaforma (il digitale terrestre) la cui penetrazione in Italia è stata massicciamente incentivata con soldi pubblici nelle ultime tre leggi finanziarie.
L’altra faccia della medaglia, infatti, è proprio questa: le squadre di calcio, tutte, contrariamente a quanto accade negli altri paesi, vendono singolarmente i propri diritti televisivi ad ogni singola piattaforma: diritti in chiaro, diritti satellitari, diritti radiofonici, diritti per il digitale terrestre, diritti per la televisione via web, diritti per la televisione via telefonino. Se pure il sistema Moggi (che certo è il caso di chiamare comunque Moggi-Galliani, a prescindere da quanto emerge nelle intercettazioni telefoniche a carico del presidente di Lega) ha favorito i risultati sportivi delle squadre ad esso immediatamente riconducibili (falsando così i campionati), non c’è società calcistica che non abbia guadagnato dalla sua esistenza e persino dal subirne il potere.
In questi anni, si è avuto qualche tentativo di scardinare questo blindatissimo sistema di potere, ma proprio la convenienza economica che esso garantiva agli stessi club vessati ha fatto sì che chiunque abbia provato a costituire un centro di potere alternativo non abbia mai trovato alleati disposti ad abbandonare il purgatorio certo per un incerto paradiso. Qualche anno fa, il presidente di una delle squadre della capitale propose per il ruolo di presidente di Federazione un nome alternativo a quello in carica, cercando appoggio fra i presidenti delle squadre delle serie inferiori, ovvero tra coloro che dall’attuale governo del calcio ricevevano (a titolo di mutualità) una quota minoritaria di risorse. L’establishment calcistico ha reagito violentemente, muovendo tutte le leve in suo possesso. Come dimostrano le intercettazioni telefoniche pubblicate dai giornali, poter incidere sulle prospettive di carriera degli arbitri (essere nominato direttore di gara internazionale apre le porte a rimborsi spese ricchissimi, trasferte prestigiose, designazioni alle grandi manifestazioni) permette di avere un’ovvia ed enorme influenza sul loro operato. Gli arbitraggi sfavorevoli concorrono a determinare risultati sportivi mediocri. Questi ultimi (ad esempio la mancata partecipazione a competizioni europee o, ancor peggio, la retrocessione in serie B) fanno sì che il valore commerciale dei diritti televisivi abbia a contrarsi. Questa è proprio la situazione che la squadra della capitale, il cui presidente guidava la fronda interna in Federcalcio, s'è trovata a dover affrontare. La paventata minore capacità di generare ricavi ha a quel punto reso addirittura obbligatorio che il presidente della Federazione (contro cui era stata presentata la candidatura alternativa), nella sua veste di presidente della banca d’affari verso cui la società romana era esposta per molti milioni di euro, chiedesse il rientro in tempi brevi e proponesse contestualmente la concessione di ulteriori linee di credito, in maniera da rendere ancora più penetrante la propria capacità di condizionare le scelte strategiche e di gestione del club. A quel punto due erano le scelte possibili: o insistere nel costosissimo tentativo di creare un’opposizione al sistema oppure licenziare il proprio direttore sportivo come segnale di resa. E questo è ciò che è accaduto. Camilleri dice “all’annegato, petri”, cioè “a chi annega, si tirano pietre”: il presidente della squadra romana è stato costretto a vendere un noto albergo di sua proprietà nel centro della capitale, al fine di coprire le maggiori perdite che gli sono derivate dal tentativo di mettere in discussione il governo del calcio.
Simili meccanismi hanno ostacolato lo scorso anno la candidatura del presidente di una squadra di calcio da poco rientrata nel calcio che conta alla poltrona di presidente di Lega.
A margine di tutto questo, mi viene da fare un paio di considerazioni: i) per fortuna che la magistratura è un potere terzo da tutto e soggetto soltanto alla legge. Un sistema di potere (in un settore che, giova ricordarlo, ha comunque interessi economici enormi anche nella società civile) così chiuso e capace di autopreservarsi sarebbe stato impossibile da scardinare senza l’opera dei giudici e le intercettazioni telefoniche; ii) chi ha architettato tutto questo è stato dannatamente furbo, ma non intelligente. L’albo d’oro del campionato di calcio di serie A dal 1994 ad oggi recita che, fatte salve le eccezioni delle squadre romane nei due anni a cavallo del Giubileo, solo le squadre dei dirigenti oggi coinvolti nello scandalo hanno vinto lo scudetto. Se ci fosse stata un po’ meno ingordigia e un po’ più rispetto per la sincerità della passione di chi segue il calcio, avrebbero potuto continuare a fare i loro comodi, a celebrare indisturbati il loro processo della Domenica per chissà quanti altri anni.
Ma questi non erano manager. Erano rubagalline dalle uova d’oro.

venerdì, maggio 19, 2006

Acido Desossiribonucleico

Ieri sera, mentre ero in macchina e tornavo a casa, ascoltavo un programma alla radio. Era collegato al telefono uno studioso che spiegava come la mappatura del codice genetico umano sia ormai stata praticamente completata. Si tratta di un risultato straordinario, ottenuto grazie ad un impegno formidabile della comunità scientifica, che rivoluzionerà la medicina ed anche il rapporto che abbiamo con il nostro corpo. C’è voluto, così si diceva, il lavoro di 150 studiosi per 10 anni per decodificare il solo gene 1, il quale costituisce circa l’otto per cento del corredo genetico umano.
Il DNA è una lunghissima sequenza di combinazioni di sole quattro basi: adenina (A), guanina (G), timina (T) e citosina (C). Tutta la nostra vita è dovuta alla particolare combinazione di questi quattro tasselli. In futuro, pare, non faremo più l’analisi del sangue o delle urine, ma ciascuno di noi si farà mappare il DNA. Lì, negli esiti di quell’esame, ci saranno tutte le ragioni del perché siamo quel che siamo. Lì scopriremo il perché soffriamo di una precoce calvizie o perché abbiamo un’intolleranza ad un cibo o, magari, perché la sera torniamo a casa e ci sentiamo un po’ depressi. Tutto è scritto nella nostra lunga ed unica combinazione di A, G, T, C.
Sentivo tutto questo e mi chiedevo se davvero mi piacerebbe, avendone la possibilità, sapere come funziona la mia “black box”. Mi domandavo, cioè, se questa non sia una di quelle questioni in cui è più utile limitarsi a cercare una risposta piuttosto che trovarla davvero. Poi ho ricordato che l’idea che tutto si debba proprio al mutevole combinarsi di quattro “mattoni” fondamentali è vecchia quanto l’uomo.
Tetragrammaton è la parola greca con cui Filone indicava le sacre lettere del nome del Dio di Israele. Esse, nella tradizione ebraica, sono quattro: jod, he, vau, he. Traslitterato nel nostro alfabeto, il nome di Dio è IHVH. Esso oggi viene letto in molti modi: Jeve, Javè, Yewe, Jeovah ed altri ancora. Quale sia il vero suono del nome di Dio è invece “il” mistero dell’ebraismo. Soltanto il Gran Sacerdote era a conoscenza di questo segreto, poiché pronunciare correttamente il nome di IHVH conferiva a chi era in grado di farlo poteri soprannaturali. Quando gli uomini comuni lo incontravano nelle sacre scritture, lo sostituivano con “Adonai”, parola il cui significato è assimilabile al nostro “Signore”.
Gli ebrei, probabilmente, sanno già che non si faranno mappare il corredo genetico.
Il Dio del tetragrammaton è androgino. Infatti, a jod corrisponderebbe il membro maschile, a he l’utero femminile, a Vau il gancio o l’artiglio, alla seconda he la vagina. Si uniscono, cioè, in un unico Verbo simboli sia maschili, sia femminili. Mentre mi perdevo in queste riflessioni, il professore che era sempre in collegamento alla radio andava spiegando che la lunga catena del nostro DNA ha comunque incroci obbligati. I tasselli si susseguono e si combinano in maniera tale che l’adenina si leghi sempre con la timina ed altrettanto facciano guanina e citosina. Allora le lettere del nome di Dio sono oggi AGTC e non più IHVH? Forse sì, chissà. E chissà, soprattutto, se fa differenza.
In altri momenti storici, i “mattoni” del nostro edificio sono stati altri. Si può pensare ad esempio alla tetraktis greca, ovvero l’insieme dei primi quattro numeri, in cui i pitagorici trovavano il superamento delle dualità, il pari e il dispari, l’essere e il non essere. Oppure a Tolomeo e Copernico, a Bohr, alla meccanica quantistica, all’antimateria. Tanti “mattoni” per tante possibili costruzioni di questo universo, tutte capaci di spiegarci ciò che cade sotto i nostri sensi.
La distinzione tra realtà e rappresentazione della realtà si sfuma tanto da risultare quasi impercettibile. E forse inutile.

Poi sono sceso dalla macchina e ho pensato che avevo fame.

venerdì, maggio 12, 2006

S'ode, in lontananza, un Eco

Accade che, proprio a ridosso della sua uscita in tutte le sale, la Chiesa si scagli con veemenza contro il film tratto da “Il codice da Vinci” di Dan Brown. Il cardinale nigeriano Arinze, membro della Curia, invita addirittura i fedeli ad adire le vie legali (“Armiamoci e partite, mie devote pecorelle”) per chiedere un risarcimento per “l'offesa” al diritto individuale di credo che la pellicola a suo dire arrecherebbe loro. Monsignor Arinze ha poi cristianamente sottolineato come altre religioni avrebbero “ripagato” il presunto insulto al Fondatore ben più “dolorosamente”. La circostanza non rappresenta una novità assoluta: già ai tempi de “L'ultima tentazione di Cristo” simili inviti ai fedeli (soprattutto negli USA) furono lanciati dai pulpiti più alti.
Ora, io non entrerò nel merito della tesi sostenuta da monsignor Arinze. Mi limito a dire che la giudico semplicemente indifendibile da ogni punto di vista, sia esso giuridico, culturale o religioso.
Quel che mi colpisce è la virulenza dell'attacco ad un prodotto di intrattenimento, dichiaratamente frutto di fantasia. Eppure, anche nel recente passato, altri libri, altre storie hanno raccontato e messo a nudo alcuni dei meccanismi mistificatori con cui la Chiesa ha accreditato la propria Verità, destrutturandoli in maniera esemplare e ben più scientificamente rigorosa di quanto non abbia fatto Dan Brown. Penso, ad esempio, ai romanzi di Umberto Eco.
Si ricorderà che ne “Il nome della Rosa”, il Venerabile Jorge, decano ex bibliotecario dell'abbazia (e dunque anche fisicamente custode del sapere), condanna alla morte per avvelenamento chiunque sfogli il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello in cui lo Stagirita scrisse pagine di elogio del riso e della sua funzione catartica. L'uomo pio deve invece avere necessariamente timor di Dio. La conoscenza diretta è peccato, perché la Verità non deve essere compresa, ma essa può solo essere rivelata da chi intercede tra l’uomo e Dio. Vengono impietosamente raccontati l’oscurantismo e la paura di una Chiesa che vede nel prestigio di Aristotele il pericolo più grande per la propria auctoritas sia spirituale, sia materiale.
Addirittura, ne “Il pendolo di Foucault” Eco distilla una paradossale quintessenza della forza della mistificazione, quando uno dei personaggi viene ucciso da una setta (il TRES, Templi Resurgentes Equites Synarchici) che gli stessi protagonisti hanno inventato nel corso della loro personale ricerca di una lettura alternativa della Storia e che ha iniziato a vivere nel momento stesso in cui ne è stata postulata l’esistenza. Quando Jacopo Belbo chiede ai suoi rapitori chi fossero, si sente rispondere: “Siamo il TRES. E lei sa di noi molto più di noi stessi”. Il Vero nasce dal Verosimile, basta che la costruzione di un altro reale possibile sia internamente coerente.
In entrambi i casi, comunque, l’auctoritas di Eco mostra passo passo al lettore come ciò che chiamiamo Verità Rivelata sia in realtà quella particolare verità che storicamente viene determinata da fatti le cui logiche sono tutte valide e tutte, al contempo, spiegabili. Se, da un lato, è impossibile una dimostrazione dell’esistenza di Dio, dall’altro Eco s’è cimentato con successo nel racconto dell’impossibilità dell’esistenza di una Verità Divina, cioè Unica e Rivelata.
Ma le reazioni della Chiesa in tutti e due i casi furono infinitamente più composte di quelle a cui assistiamo oggi. Perché la Chiesa ha tanta paura de “Il codice da Vinci”? Credo per la stessa ragione per la quale ha manifestato con tanto calore gradimento per il film di Mel Gibson sulla passione di Cristo. La Chiesa conosce, per averne fatto magnificamente uso quando narrava iconograficamente al popolo analfabeta Vecchio e Nuovo Testamento dentro i luoghi di culto, la forza dell’immagine e la sua straordinaria capacità evocativa. Il timore è che tutti davvero inizino a vedere nel dipinto dell’Ultima Cena un Cristo marito e padre di famiglia, magari aperto alle gioie del sesso, del riso e del cibo. Perché c’è un grande bisogno, anzi c'è una grande domanda di un Dio, finalmente vicino all’Uomo, in cui ci si possa immedesimare immediatamente. Sarebbe un Dio fottutamente pop, un Dio che sbaraglia la concorrenza di quel povero Cristo finito in uno di quei film splatter in cui la Parola non serve a nulla (e infatti i dialoghi sono in antico aramaico). Chissà se i produttori del Codice da Vinci finiranno denunciati per concorrenza sleale.
Nel frattempo, lo andrò a vedere.

giovedì, maggio 04, 2006

Privo di titolo

Ogni qualvolta in Sicilia c’è una strage, un morto, un arresto, si sente dire che la lotta alla mafia è un fatto prima di tutto culturale. E spesso la frase, sull’onda dell’emozione che i fatti di sangue ci suscitano, ci appare un po’ banale, un po’ intellettualista e, in fondo in fondo, neppure del tutto vera. È innegabile che l’ultimo moto unitario di indignazione degli italiani sia stato quello che ha seguito le stragi di Capaci e via D’Amelio. Forse l’unica verità condivisa da tutti gli italiani è quella per cui Falcone e Borsellino sono i Lari e i Penati della nostra povera Repubblica (anzi, di quel che ne resta), Libero Grassi è un eroe civile, il Generale Dalla Chiesa un glorioso combattente.
È esattamente quel che sento anche io, al punto che non aspetto che altri cittadini italiani straordinari come Giancarlo Caselli o Don Ciotti siano uccisi dalla mafia per affiancarli a quelli che prima ho citato (e a quanti ho colpevolmente tralasciato).
Stamattina, sulla metro, leggevo per l’ennesima volta (sì, perché torno volentieri sui libri che ho amato) “Il cane di terracotta” di quel meraviglioso cantastorie che è Andrea Camilleri. Ed eccola lì, mirabilmente in mezza pagina (scritta nel 1996), l’evidenza empirica, concreta, schiacciante di come la mafia sia un fenomeno da affrontare prima di tutto culturalmente.
Recentemente, tutti abbiamo visto le immagini del covo di Bernardo Provenzano, di quella catapecchia in campagna, a quattro passi da Corleone, in cui viveva il boss dei boss. E tutti ci siamo fatti affatare dall’illusion sociologique dei media che hanno enfatizzato quanto fosse stridente il contrasto tra l’immensità delle ricchezze del “capo della mafia” e lo stile di vita spartano a cui questi si costringeva da anni.
Bene, la scena che Camilleri racconta è quella del vecchio capomafia che, superato dagli eventi, dal progresso che corre velocissimo anche nell’organizzazione su cui regna, s’appatta con il commissario per essere arrestato e andare, finalmente, in pensione. Il mafioso e il poliziotto s’accordano per fare giusto quel po’ di teatro che consenta al vecchio Tano ‘u Grecu di non perdere la faccia agli occhi degli altri mafiosi. Perché “costituirsi, dottore, è una cosa e essere arrestato un’altra”.
Il gentlemen’s agreement si chiude in incontro notturno in una casa colonica quadrata, con solo una branda, un tavolo e un paio di sedie di paglia, a cui entrambi i protagonisti si presentano disarmati. Il codice che consente loro di parlarsi è quello degli uomini per i quali è comunque sacro il valore della stretta di mano. Massimamente se essa viene data di fronte ad una bottiglia di quello buono.
Allora non appare più tanto inspiegabile che dopo aver catturato Totò Riina le forze dell’ordine si siano “dimenticate” di frugare nel covo e, di conseguenza, viene addirittura da definire naturale la recente assoluzione del generale Mori e del capitano Ultimo (colui che ha materialmente condotto l’azione di polizia che ha portato alla cattura del capo dei corleonesi) al processo che li vedeva imputati di favoreggiamento, proprio per quell’omessa perquisizione.
Io non credo affatto che Camilleri avesse notizie di prima mano su quali fossero gli stili di vita del grande vecchio della mafia. Credo però che possedesse gli elementi per creare una finzione di estrema verosimiglianza. Uno dei suoi libri, considerato ingiustamente minore (forse perché trattasi di breve saggetto e non di narrativa), è la “Bolla di componenda”. In esso, si racconta di un incredibile documento, in uso in Sicilia nel diciassettesimo secolo, con il quale il potere ecclesiastico, dietro il pagamento di un obolo, di entità variabile a seconda della gravità del peccato/reato, garantiva preventivamente l’assoluzione per qualsiasi atto criminoso, escluso l'omicidio. Il brigantaggio e le mafie nascono, storicamente, dall’assenza (e dunque dalla domanda da parte della popolazione) di uno Stato e, più in generale, di un potere in grado di amministrare territorio e uomini.
Oggi la mafia è sicuramente altro da questo ed è altro anche dalla mafia di cui abbiamo avuto notizia finora. I codici sono sicuramente cambiati e, quel che è peggio, non li conosciamo. La chiave che abbiamo per impossessarcene è, però, la medesima: comprendere quali siano le ragioni per le quali un antistato criminoso ed ostile verso la popolazione stessa continui ad avere nel tessuto sociale un così ampio spazio in cui prosperare e farsi forte.